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Dietrologie e sospetti: lo strano caso di Samia, l’atleta somala

Creato il 20 agosto 2012 da Davide

In questi giorni i media riportano la storia di Samia Yusuf Omar, atleta somala portabandiera alle Olimpiadi di Pechino che sarebbe morta in uno sconosciuto naufragio forse nell’aprile del 2012, tentando di venire in Italia. Sulla storia si sta già costruendo un caso e non mi stupirei se la RAI ci facesse un film, ma dal mio punto di vista la storia presenta parecchi lati oscuri.
E’ da un po’ di tempo che, leggendo le cronache dei “viaggi della speranza”, dubbi e sospetti cominciano ad aleggiarmi nella mente, fino ad oggi esili ed evanescenti, ma ora, dopo il caso di Samia, corposi e massicci. Poiché l’Italia è un paese che adora dietrologie e teorie del complotto e dove “il sospetto è l’anticamera della verità”, analizziamo la figura di Samia come la riportano i media.
Samia, viene scritto, è la più grande di sei fratelli e cresce in povertà a Mogadiscio. Alcuni media (Il Gazzettino, 20/8/2012; http://affaritaliani.libero.it/cronache/samia-olimpica-somala-a-pechino190812.html) riportano tuttavia che era figlia di una fruttivendola e di un uomo (?) ucciso da un proiettile d’artiglieria. Per un’atleta giunta alle Olimpiadi è molto strano che non si sappia chi fosse il padre, soprattutto visto che Samia proviene da un territorio tribale come la Somalia dove le divisioni di casta oltre che di etnia sono fortissime. Possiamo supporre, invece, che ella appartenesse alla buona borghesia modernizzatrice di Mogadiscio. Non facciamoci ingannare né dalla professione della madre (avere un negozio nel terzo mondo è fare parte della buona borghesia), ma neppure dalla storia della povertà perché, come ogni antropologo sa, sono gli organismi internazionali a trasformare un “tribale” in “povero” applicando ad esso gli standard burocratici internazionali avulsi dalla realtà sociale del luogo. Io stessa nella riserva Makah, (stato di Washington , USA) ho visto che molti membri delle famiglie aristocratiche detentrici del potere reale nella riserva avevano standard di vita inferiori (più poveri) di altri, che magari lavoravano fuori riserva a Seattle, ma che discendendo dagli antichi schiavi erano ancora dei paria e che rischiavano in ogni istante di perdere lo status di nativo americano e i benefit federali connessi.
Dunque status economico “povero” non significa che Samia non appartenesse all’aristocrazia della sua etnia e pertanto ai gruppi di potere in Somalia. Il sospetto che Samia non fosse così “povera” si può evincere anche da altri due fatti: primo Samia, benché sorella maggiore, non solo è esentata dal badare ai fratellini, potendo praticare sport, ma è anche esentata dal contribuire al bilancio familiare andando in sposa. Solo famiglie molto ricche ed aristocratiche (secondo gli standard della Somalia) possono permettersi questi lussi.
Abbiamo un’ulteriore riprova del fatto che lo status sociale di Samia era elevato dalla intervista di Teresa Krug, la giornalista di Al Jazeera che voleva scrivere un libro su Samia (http://rinabrundu.com/2012/08/19/esclusiva-rosebud-il-sogno-italiano-di-samia-yusuf-omar-intervista-a-teresa-krug-di-al-jazeera/). Nell’intervista Krug racconta: “Ci incontrammo diverse volte per interviste-settimanali. Per ben due volte in Somaliland, dove lasciò la famiglia per stare con me e soddisfare la mia curiosità. E poi ci incontrammo una volta in Etiopia; dell’occasione scrissi per Al Jazeera in lingua inglese.” e ancora “C’era naturalmente il problema della lingua, sebbene il suo inglese migliorasse costantemente, ma c’era anche il fatto che viveva in diversi luoghi: all’inizio abitava ancora a Mogadiscio – una città troppo pericolosa per uno straniero nel 2010.” (si presume che lo straniero fosse Teresa Krug. Circa il Somaliland vedi la voce assai istruttiva su Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Somaliland).
Krug continua: “Poi io mi spostai in Qatar. Lei continuò a viaggiare in Etiopia, attraverso il Sudan fino a raggiungere la Libia. Le spiegai – forse non nel migliore dei modi dato che aveva solo 20 anni – che non sarebbe stato opportuno fare quel viaggio, ma lo fece comunque. Nel caso particolare scomparì [sic] per diversi mesi prima di ricomparire nel Nord Arfrica [sic] miracolosamente viva.” e ancora “Credo che il più bel ricordo che ho di Samia sia di quando le feci visita in Etiopia nell’Aprile del 2011, un tempo nel quale lei era chiaramente più rilassata e più ottimista sul futuro.”
Anche qui si può notare non solo che Samia aveva disponibilità economica di viaggiare, ma anche quella di spostarsi in vari paesi con l’appoggio del clan. Samia inoltre aveva una decente conoscenza dell’inglese e contatti internazionali di un certo peso. Sicuramente ella infatti era in contatto con organizzazioni sportive internazionali (prima di Pechino nel maggio del 2008 aveva gareggiato nei 100 m piani ai Campionati africani di atletica leggera 2008, concludendo in ultima posizione la sua batteria). Inoltre era in contatto con Abdi Bile, che nel 1987 aveva vinto un oro nei 1500 metri ai Mondiali di Roma, che fa parte di numerose organizzazioni umanitarie e sportive internazionali e vive in Virginia (USA) e che ha così drammaticamente dato la notizia della sua morte a Mogadiscio alla riunione del comitato olimpico della Somalia in contemporanea con la giornalista italo-somala Igiaba Scego che l’ha annunciata sul blog Pubblico.
Ora dalle notizie è chiaro che Samia non era una sprovveduta donna somala analfabeta, appena uscita dalla sua capanna di sacchi per la spazzatura nel cuore del boscaglia somala, ma una ragazza appartenente alla elite, con disponibilità economiche, linguistiche e conoscenze tali che era arrivata a Pechino e poi si era recata ad Adiis Abeba per allenarsi per le Olimpiadi di Londra. Su di lei vi era anche il progetto di un libro da parte di Teresa Krug, all’epoca accantonato, ma che ora vedrà probabilmente la luce.
A questo punto la domanda da teoria del complotto è: perché Samia per venire in Italia in cerca di un allenatore decente preferisce passare attraverso il Sudan e la Libia, in quel momento in piena guerra civile, e poi cercare un barcone pagando circa tra i 10.000 e i 20.000 dollari e rischiando di passare mesi nell’attesa (mesi utili per gli allenamenti visto che era l’inverno del 2011 e le olimpiadi erano nel 2012 e che c’erano le selezioni nazionali da passare) quando, essendo in possesso di passaporto valido, visti i suoi viaggi, poteva benissimo prendere un volo turistico da Mogadiscio per l’Italia per 450 Euro o da Addis Abeba per l’Italia per 800 Euro, tenersi il resto della cifra che avrebbe utilizzato per la traversata del deserto e del Mediterraneo, e presentarsi chiedendo asilo politico o “sportivo” in Italia dove sarebbe stata accolta con tutti gli onori e magari con una cittadinanza italiana purché corresse per l’Italia?
Se il suo sogno era andare a Londra 2012 (“Lei voleva semplicemente trovare un allenatore e partecipare alle Olimpiadi del 2012.” Krug, ibidem) perché perdere mesi di allenamento preziosi con la traversata del deserto e le liste d’attesa per un barcone? e poi c’erano le selezioni nazionali, mica ci si presenta alla porta dello stadio e si dice “Ehi, verrei correre anch’io!”, Samia non era una sprovveduta e non poteva credere che nel suo caso sarebbe stato così, chi le ha fatto credere che sarebbe stato così?
Perché la sua amica Teresa Krug non l’ha aiutata invece di darle solo buoni consigli, perché Krug, che era rimasta in contatto con lei mentre era in Libia, non denunciò la situazione aprendole le porte dorate di un permesso umanitario? Non dimentichiamo che siamo in piena primavera libica e ottenere per lei un passaggio in Europa sarebbe stato molto facile visto il numero di militari impegnati nel conflitto e le ricadute mediatiche di un suo salvataggio. “Dopo il suo arrivò in Libia parlammo di rado. La sostenni per quanto mi fu possibile, ma lei non si faceva sentire spesso. Nell’ultimo messaggio che mi mandò diceva che era stata in prigione, che era stata molto male ma che adesso si sentiva meglio. Questo accadde all’inizio del 2012. Quando provai a risponderle scomparve una volta ancora.” (Krug, ibidem)
Perché anche Abdi Bile o Igiaba Scego, non l’hanno aiutata in vita, ma si sono premurati di dare un gran risalto mediatico alla sua morte?
Perché Samia non si è rivolta alle innumerevoli ONLUS caritatevoli che affliggono la Somalia, e in genere il Corno d’Africa o, visti i suoi contatti, direttamente all’UNHCR dove la sig. Boldrini in persona sarebbe stata felicissima di aiutarla ad arrivare in Italia?
E’ davvero morta Samia? (la stessa intervistatrice di Teresa Krug si pone il problema: “Se le voci sulla sua scomparsa rispondessero al vero, quale é il miglior ricordo di lei che vorresti condividere con gli altri.” , http://rinabrundu.com/2012/08/19/esclusiva-rosebud-il-sogno-italiano-di-samia-yusuf-omar-intervista-a-teresa-krug-di-al-jazeera/). o magari è semplicemente sposata e chiusa in casa come ogni buona moglie di alta casta somala fa e magari non sa nulla di questo scoop?
Altra domanda: Chi ci guadagna dalla morte di Samia, ammesso che sia morta? Immagino che presto vedremo pubblicato il famoso libro intervista, probabilmente vedremo anche un film a lei dedicato, probabilmente qualche parente si farà vivo per riscuotere i dividendi e per fare il “parente della vittima” o “curatore della memoria della vittima” a vita, una professione ben remunerata nel circo mediatico e politico, in particolare in Italia.
O magari lei stessa si farà viva in seguito, quando il successo mediatico ed economico sulla sua morte si sarà ammosciato, magari citando Mark Twain: “Le notizie sulla mia morte sono un’esagerazione.” o, tristemente, si unirà alla schiera di personaggi terzomondiali, autrici/ori di autobiografie scritte da altri che affollano le Onlus e le istituzioni internazionali, sempre pronte a dare il loro parere sull’universo mondo.
Sicuramente in Italia resterà il solito stucchevole dibattito e piagnisteo sui viaggi della speranza, sull’accoglienza e sulla cittadinanza, e tutti sempre a guardarsi bene dal chiedere perché un tizio preferisca spendere 20.000 dollari e rischiare la vita quando potrebbe spenderne 700 viaggiando in aereo.
Quale traffico umanitario c’è sotto? perché UNHCR si straccia le vesti per le carrette del mare e non muove un dito per trovare gli aventi diritto all’asilo nei campi profughi da esso gestiti e farli arrivare tranquilli a destinazione con un prezzo stracciato? Se ci sono norme idiote si possono far abolire.
In quanti del giro delle Associazioni Umanitarie ci mangiano sul traffico di clandestini a parte gli scafisti e i corrieri del deserto, le polizie dei paesi africani e gli eserciti degli stessi?
Quante associazioni caritatevoli portano avanti una propria agenda promettendo un permesso di soggiorno-dopo-sbarco-in-Italia? E qui mi viene in mente una tipica battuta dei film di spionaggio: “L’agente del servizio segreto dice all’eroe: ‘Per questa missione siamo disposti a pagarti qualunque prezzo.’ e l’eroe risponde ?Allora sapete già che non tornerò vivo!’”


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