Magazine Cinema
Italia, 2013
135 minuti
Al di là dell'estetismo barocco e surreale, degli affreschi pittorici, dei palazzi monumentali, delle carrellate sopraffine, dei plein-air sinuosi e avvolgenti, delle discusse citazioni felliniane ma allo stesso modo, anche bunueliane (Il Fantasma della Libertà, Il Fascino Discreto della Borghesia).
E di altri fattori più discutibili, nonchè disfunzionali, come una sceneggiatura claudicante, in continuo vacillare tra sacro e profano; poetico e "macabro" (inteso come mostrazione di una realtà insignificante, scialba, esibita fino alla nausea) se non addirittura inesistente, in quanto inutile alla rappresentazione di questo Nulla tristemente elogiato, e che di conseguenza lasciano alquanto perplessi anche sul reale interesse critico che sta sotto a queste produzioni(1). Al di là, comunque, di quanto suddetto, nel film che quest'anno ci ha rappresentati in America (e nel mondo) aggiudicandosi l'ambita statuetta (ma possiamo considerarla realmente una vittoria?) emergono fondamentalmente due vocaboli, che a mio avviso colpiscono nel segno: Vuoto (il maiuscolo è d'obbligo) e povertà. La prima è la voce dell'inconsistenza (per dirla in sintonia con gli instancabili programmi Mediaset - visti i soldoni spesi/gettati in co-produzione, distribuzione, battage pubblicitari, etc.) e affiora nel monologo "funerario" di quel Jep Gambardella (Tony Servillo) dal perenne sguardo trasognato, che in ricordo del suo amore di gioventù vede il soffitto trasformarsi in mare, quando in realtà intrappolato nella decadenza morale che lo circonda. Ed è un Vuoto di relitti, di macerie, di fumo illuminato dalle luci del superfluo; è il Vuoto esistenziale che si addensa all'interno delle mura antiche, delle porte romane al sorgere del sole, di quella meravigliosa cornice che ancora resiste all'avanzare del tempo e che è l'unica, vera, Grande Bellezza. Una bellezza remota perchè occultata dallo sciame della mondanità contemporanea e del suo futile esibizionismo attraverso feste, trenini, passerelle, gossip, imitazioni ed elogi effimeri, opulenza, ipocrisia, ritrovi da salotto tra una generazione altolocata di pseudo-intellettuali disperati, alla deriva, che odorano già di morte come "L'odore delle case dei vecchi".
E questo Vuoto non può che generarla, la morte (la firma marmorea in apertura, "Roma o morte" è già presagio della disfatta). Quella metaforica (oltre che fisica) e che ricorre costantemente in questo teatro del grottesco. E' la morte dell'arte, prima di tutto, e al contempo dell'infanzia, obbligata a cospargere (e cospargersi) di cromatismi per cancellare il grigiore della noia; è quella dell'economia; del consumismo frenetico. E' quella definitiva della politica (del comunismo), di una sinistra imborghesita e bendata che ad oggi non sa più dove andare a sbattere la testa. E Gambardella, più di chiunque altra "salma" che popola questa triste fauna notturna, realizza, commuovendosi di fronte alle istantanee di una vita immortalata day by day, che è giunta l'ora del ritiro da quella scena sfarzosa nella quale lentamente affondava, ancor più degli altri, tanto da mirare a diventarne lo stesso distruttore: "Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire". Ma ecco che paradossalmente, è con l'inaspettata apparizione della centenaria Suor Maria, sul cui volto deturpato dal tempo traspare l'imminente sopraggiungere della fine terrena, che udiamo la seconda frase importante: "Ho sposato la povertà. Ma la povertà non si racconta, si Vive" (anche qui il maiuscolo è d'obbligo). E questa è la voce della realtà, purtroppo invisibile(2), che è poi quella in grado di farci riassaporare il gusto delle cose semplici e che veramente conta, nella, e per la Vita. Una realtà che nel film di Sorrentino si palesa in modo significativo solamente al tramontare, in quanto, come poc'anzi espresso, celata dietro quella scenografia artefatta finora esibita, ma finalmente in procinto di svanire come un soffio al vento in direzione del Colosseo. E' la realtà di quella Grande Bellezza che Gambardella non riusciva a vedere: "Cercavo la grande bellezza, ma non l'ho trovata". Ora che l'orizzonte è nuovamente terso, quel ricordo del primo amore diviene oltremodo chiaro, e automaticamente si liberano le idee, le ispirazioni; si può tornare a vivere realmente.
(1) Oramai, appare certo che lo spettatore italiano venga costantemente preso per i fondelli. Perchè se anche la sera dopo la prima assoluta, i "media che contano" insistono imperterriti nel loro triste elogio, quasi esclusivamente limitato al variopinto mondo di canzonette e balli da varietà televisivi, scusatemi, ma quanto cercato di analizzare finora crolla miseramente. E allora si, che in questo caso restano solo gli squarci decadenti di un'Italia, destinata a rappresentare in tutto il mondo... il Grande Vuoto.
(2) Cerchiamo di soffermarci un attimo per ricordare che in Italia, non mancano autori validissimi ma praticamente sconosciuti ed invisibili (grazie come sempre al potere dei "media che contano"). Gente come Frammartino, Minervini o Diritti, con i loro film hanno saputo raccontare con spirito veramente onesto, la realtà dell'Italia più profonda e rurale; la realtà che conta.
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