Comprendere il senso di una parola senza comprenderne la verità significa non capirne la profondità.
La parola greca dike viene per lo più tradotta con giustizia, ma dike, nel suo significato formale, nomina lo stato in cui le cose stanno come devono stare. Di come devono stare nell’opposizione. Questo «dovere» non è un compito ( o un imperativo o un dovere morale), ma una necessità.
Dìkaios è la parola che nella definizione di Simonide significa “giustizia”: equivale al latino iustus, “il giusto”. La parola matrice di dikaios è dike, giustizia (iustitia). Ma dike è anche la parola che corrisponde al romano ius: tra i suoi diversi significati, la parola ha anche quello di indicare “ciò che spetta”. Questo, anzi, è il significato originario della parola, attestato in Omero, e mantenuto per tutto il periodo arcaico, fino a Socrate, come indicativo dell’essenza della giustizia. Lungo tutto il periodo arcaico la giustizia è la regola fondamentale nei rapporti tra le persone. Socrate interrompe questa visione: la giustizia non è più regola, ma “virtù dell’anima”
La differenza tra giustizia come regola e giustizia come virtù è fondamentale e soprattutto da capire.
La giustizia come virtù non richiede ciò che la giustizia come regola impone: la simmetria delle parti impegnate nel rapporto, la reciprocità e la proporzione nel togliere e nel restituire. In una parola: la misura. La giustizia come virtù può essere illimitata. Alla differenza concettuale che c’è tra giustizia come virtù e giustizia come regola corrisponde nella lingua greca una differenza terminologica: la giustizia come virtù è dikaiosyne, la giustizia come regola è dike. L’una è espressione di un atteggiamento intrinseco, nascosto, l’altra è un modo di vivere. Questo secondo ambito di significato è anche quello che emerge dai frammenti dei filosofi presocratici.
Là da dove le cose hanno il loro inizio, devono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse devono infatti fare ammenda ed essere giudicate per la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo. Così dice Anassimandro nel suo celebre frammento in cui appare la parola dike.
Vivendo, si capisce, la colpa è inevitabile, poiché ogni azione causa una serie di conseguenze che hanno effetto su ciò che ci circonda, e in particolare su coloro che ci sono vicini. Ma cos’è la colpa? È una responsabilità oggettiva, la matrice della causa che abbiamo inserito nel mondo e che lo ha, anche se minimamente, cambiato. Non c’è modo di sfuggire alla colpa, perché anche l’inazione può portare a nefaste conseguenze.
La colpa, quindi, è inevitabile, ma lo è anche l’ammenda. Per questo chi è consapevole del male che ha causato deve cercare di rimediare. Sembrerebbe ovvio, ma non sempre lo è.
Emanuele Severino, Dike, Biblioteca Filosofica, Adelphi 2015.