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“Dimmi che senso ha”

Creato il 09 ottobre 2012 da Sarettajan @girotrottolando

Associare alcune delle più belle città italiane ai 5 sensi. Un’idea geniale promossa da Blink Booking!
Il concorso si chiama “Dimmi che senso ha” e tra le regole, che potete leggere qui, c’è quella di nominare altri 5 blogger. Allora io solennemente nomino e invito a partecipare Valeria, Svale, Lisa, Nelli e Federica!

Ecco dunque le mie associazioni…Enjoy!

“Dimmi che senso ha”

Man mano che con la macchina mi avvicinavo l’odore diventava più forte. Era odore di sale marino, odore di pizza, di sfogliatelle, di pesce, dello smog del centro… Con il finestrino aperto inspiravo profondamente e la sentivo sempre più vicina… I limoni, il vino bianco… Trattenevo il fiato per sorpassare quella spazzatura tanto chiacchierata e poi spalancavo i polmoni quando arrivava lui, il re, il pomodoro, o meglio la pummarola! Tra i sensi l’olfatto era quello più snobbato da me, io che se non tocco e non assaporo non vivo veramente cose e persone eppure… eppure mi ritrovai ad odorare così fisicamente, così mentalmente, che mi sembrava di sentire la pelle liscia dei pomodori, di acchiappare con la lingua la mozzarella filante, di sentire l’acqua del mare scorrermi sui piedi…
Quando mi sono fermata il mio naso era saturo e stanco, pensavo di aver annusato tutto oramai e invece avevo dimenticato qualcosa, come avevo potuto?? Scesi e l’odore di caffè era tanto forte che mi acchiappò la gola e mi trascinò a forza dentro a quel bar con l’insegna nera. Mentre me lo servivano attivai gli altri sensi, la lingua scalpitava troppe forte, ma era già tardi. Mi ero già innamorata di lei, di Napoli, solo odorandola.

“Dimmi che senso ha”

“Tatto” può significare tante cose.. Un tocco forte e deciso come una stretta di mano, uno sfiorarsi di due nasi, una vibrazione lontana che riesce lo stesso a toccare tutte le tue corde, uno schiaffo…
Venezia in una sola volta ha riassunto tutti quanti questi significati.
Il suo romanticismo mi ha appena sfiorato perché io non ero lì per amore…Non ho sospirato su nessun ponte ne ondeggiato su qualche gondola accompagnata da violini e rose! Ho solo trotterellato per la Biennale che, quella si che mi ha scosso dentro, facendomi rimbalzare da un padiglione all’altro rapidamente, come una pallina da flipper. Ogni opera mi dava una schicchera forte che mi lanciava verso la successiva contro la quale praticamente mi schiantavo. Alla fine avevo i lividi!
La buona volontà e pazienza dell’amica che mi ha accompagnato, consapevole di ciò a cui sarebbe andata incontro, è stato un tocco delicato che ha aperto i rubinetti delle lacrime e mentre acqua usciva acqua entrava perché la pioggia costante di quel week end è stata un premere nervoso sulle galosce d’emergenza, un insinuarsi insistente nell’impermeabile e un afflosciarmi il cappello, tanto carino quanto inutile.
E le dita che schiacciavano frementi sulla macchina fotografica e poi venivano schiacciate senza pietà dentro l’ombrello rotto.
Tra tutto questo toccare e ritoccare credo che alla fine i vincitori assoluti sono stati i piccioni. Attaccati ai capelli, in mezzo ai piedi, poggiati sulle braccia, rumorosi, sporchi e prepotenti non hanno mai smesso di tastarmi!!

“Dimmi che senso ha”

Nevicava sul Duomo. Il Duomo di Milano.
Osservavo le sue alte guglie sfumate di quel bianco tenue e un pò triste e nella mia testa canticchiavo nostalgica De Andrè… “Ma tu che vai, ma tu rimani, anche la neve morirà domani, l’amore ancora ci passerà vicino nella stagione del biancospino…” …

Poi sentii delle note reali, non quelle che avevo in testa, note confuse, non lontane, solo poche piccole note e poi silenzio.
Immaginai quei giochi in cui i bimbi spingono tasti sonori a caso.
Ritornai al Duomo, ai miei pensieri, a De Andrè, ma successe di nuovo, e di nuovo, troppe volte per non iniziare a cercare. La neve e la nebbia rendevano tutto scuro e impreciso, seguivo questi suoni che ogni tanto rintracciavo, come delle orme.
E lo erano. Erano passi. Passi di chi scendeva le scale.
Erano i gradini di fronte al Duomo. I gradini della metro.
Ogni gradino corrispondeva ad una nota musicale. Era un concorso indetto da non ricordo chi, non mi importava. Dovevi filmarti mentre componevi una melodia correndo su e giù, ma nessuno lo faceva, troppo freddo, troppa neve.
Nessuno creava una sequenza voluta però tutti avevano la propria, quella naturale. Salivano e scendevano.
Donne leggiadre che sfioravano appena i gradini con la punta dei piedi come le ballerine. Debussy. Uomini con cappotti pesanti e valigie che si soffermavano un tempo infinito su ogni nota. Beethoven.
Era come se ognuno avesse dentro il proprio motivo e fosse smascherato da quelle scale fatate che riuscivano a tirarglielo fuori, a regalarlo al vento.
Rimasi lì ad immaginare da chi provenisse il prossimo suono.
Giovane o vecchio? Magro o grasso? Uomo o donna? Triste o felice? Sale o scende?
Esitavo un pò pensando a quale motivetto sarebbe uscito da me, a quali note mi vibrassero sotto pelle, a chi avrebbe ascoltato la mia musica. Poi, chiusi gli occhi e scesi veloce per poi risalire e riscendere a metà e poi fino alla fine per poi tornare su, tutto d’un fiato. Dai miei passi usci quella musica rapida e poi lenta, ed io rimasi lì, in cima, col fiatone, a sentirne l’eco riecheggiare intorno.
Tornai al duomo. Per quei meccanismi strani della mente, non ero più nostalgica, non avrei potuto esserlo, ero diventata una compositrice.

“Dimmi che senso ha”

Quando mio padre da piccolina mi metteva davanti alla nostra piccola riproduzione del Guernica e mi raccontava la sua storia io rimanevo lì incantata, mi sembrava di poterlo vedere Picasso mentre dipingeva infuriato su quella enorme tela, mi sembrava di vedere il bianco e il nero accumularsi, fare bolle, stendersi, asciugarsi…Avevo l’acquolina in bocca. Ebbene si. La stessa acquolina in bocca che mi viene davanti alla carbonara o al gelato al pistacchio di Bronte.
E quell’acquolina aumentò crescendo con i pastelli di Renoir, con le pennellate piccole di Monet, con i colori assurdi di Van Gogh e con quelle informi di Pollok… E’ fame. Fame d’arte.
Quella fame che mi ha portato negli anni a visitare in maniera quasi ossessivo compulsiva i grandi musei europei, quella fame che mi ha fatto venire i crampi allo stomaco davanti al “Campo di grano con corvi” ad Amsterdam e che mi ha stretto la gola dinanzi alla “Morte della vergine” a Parigi. Non posso farne a meno, non ammiro i quadri, li mangio. Posso sentire i colori sulla lingua. Ognuno ha un gusto diverso, “Il Bacio” di Klimt sa di gianduia, “Il grido” di Munch sa di amaretto…
Ecco, immaginate dentro agli Uffizi di Firenze quanti gusti si possono assaporare. C’è da farsi venire un’indigestione con circa 15 stanze di arte metaforicamente commestibile, per tutti i palati, per la gioia delle papille gustative. Forse siamo noi studenti d’arte ad essere un pò pazzi, ma sono sicura che se tirate fuori la lingua anche voi riuscirete ad assaporarli tutti. Ci vediamo fuori per leccarci i baffi!!

“Dimmi che senso ha”

28 anni.
28 anni che passeggio distratta per Via Margutta.
28 anni che costeggio rapida il Circo Massimo.
28 anni che giro a sinistra verso San Giovanni, o a destra, verso San Lorenzo.
28 anni che cerco parcheggio vicino al Colosseo.
28 anni che storco il naso di fronte all’Altare della Patria.
28 anni che inciampo tra i sanpietrini dell’Appia Antica.
28 anni.
28 anni che i miei occhi dovunque si girino vedono lei, Roma, la mia città…
Sono sicura che se la percorressi ad occhi chiusi riuscirei a vederla comunque, salirei le scale del Pincio a tastoni, pronta ad arrivare in cima e a godermi lo spettacolo di Lei dall’alto, ma poi, arrivata su, cambierei idea e invece di voltarmi verso la città e riconoscerne tutti i monumenti, mi volterei verso tutti quei turisti che in quel momento sono lì. Aprirei gli occhi e vedrei le loro bocche semiaperte, sussurranti frasi d’amore, vedrei le loro mani appoggiate sul muretto per sporgersi e scorgere un pò di più, vedrei i loro occhi aperti che si muovono curiosi e veloci per fotografare quanto più possibile, per catturare quanto più possibile, quegli occhi di chi vede la mia città per la prima volta, sognanti, sorpresi, pieni di lacrime.
E mi accontenterei di questo, di vederla riflessa in quegli occhi da turista che io non avrò mai, per poi finalmente girarmi e chiuderli ancora, io in fondo, posso vederla anche così.


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