Magazine Racconti
Aveva iniziato a farsi le canne decisamente presto Dino, un po’ per noia un po’ per emulare gli eroi tragici del suo mondo musicale segreto. Già in terza media. Del resto fare parte di una band e non farsi neppure una canna pareva una cosa inconcepibile. E poi c’era quel dolore sordo che si era nascosto in fondo al cuore e che ogni tanto gli esplodeva fuori in modo incontrollato. Quando gli succedeva da piccolo il padre lo prendeva in braccio spaventato come se si trattasse di un tizzone rovente e lo calmava come poteva: con Lexotan e musica classica. Fabrizio Cattaneo dopo la morte di Ester si era accorto di non conoscere affatto quel esserino dai capelli dorati e dallo sguardo infuocato che era suo figlio. “Troppo simile alla madre” ripeteva come scusandosi. Lui, Fabrizio, non era come Ester: troppo impulsiva, troppo sensibile, troppo emotiva; insomma troppo. Invece Fabrizio stava sempre nel giusto mezzo, nell'area del ragionevole; preferiva Bach a Mozart, Corelli a Beethoven. Il controllo della ragione sopra il mare turbinoso e insondabile dell’istinto gli pareva l’unico modo per vivere. Aveva amato Ester, questo era innegabile; e l’aveva amata di un amore senza riserve e senza nome. Ma Ester se ne era andata, a tradimento, sebbene lui le avesse chiesto e l’avesse supplicata di restare. Se ne era andata lasciandogli un buco insondabile nel petto e quel amore totale se l’era portata via insieme al suo corpo flessuoso e ai suoi occhi nocciola impreziositi dalla scintille di fuoco. Fabrizio aveva curato la propria ferita con il virtuoso tecnicismo dell’arte della fuga. E a suo modo ne era venuto fuori. Ma quel piccolo figlio non voleva saperne, piangeva e si dibatteva nel caos di un dolore fatto di fango e moccio e tutto questo gli risultava incomprensibile. “calmati, calmati, la mamma è in cielo e da lassù ci vede entrambi. Pensa che figuraccia se ti vedesse così con il naso tutto bagnato e le lacrime che ti rigano le guance?”. E il piccolo Dino tirava su con il naso, sorrideva guardando verso l’alto, magari facendo ciao ciao con la manina e asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. Ma la lacerazione interiore non migliorava, anzi. Poi aveva finito le scuole elementari e alle medie aveva conosciuto altri come lui, altri che trattenevano nello stomaco un urlo senza suono, e la musica che suo padre tanto criticava, la musica fatta di percussioni e chitarre elettriche, era diventata quel urlo. Chitarra e basso. E a nulla erano valsi i ragionamenti del padre. Non avrebbe abbandonato quei suoni e quei ritmi. Essi lo facevano sentire compreso. E così iniziò il percorso della band. Grazie al professore di musica si era creato il gruppo e dal gruppo alle canne. Per un anno intero Dino credette che quello era il modo di far parlare il suo dolore. Musica grunge e canne. E poi era andato al liceo e aveva conosciuto Domenico, Mimir.
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