Dio giocava a pallone è innanzitutto il titolo del un racconto che dà il nome alla raccolta. Giorgio Ghiotti, oltre ad essere l’autore, è anche ognuno dei protagonisti delle sue storie.
L’adolescenza è qualcosa che si vive, che si attacca sulla pelle e non se ne va più. Ecco perché Dio giocava a pallone (Nottetempo, 2013) è molto più che una raccolta di racconti di un giovanissimo scrittore esordiente: ha la forma piuttosto di un polittico, di una pala d’altare consacrata a una divinità che «ci osserva sempre e fa il tifo per noi, non importa se perdiamo, ci osserva col suo berretto e una Coca-Cola in mano, la cannuccia appena piegata, nessun miracolo nelle tasche, berretto e bibita come qualunque padre alla partita del figlio». Un polittico, si diceva, perché ogni storia che nasce sembra sopravvivere da sola, e ogni figlio che nasce vuole farcela da solo, ma in fondo tutto ha senso solo accanto gli altri, episodi amori o figli. Tutto ha senso solo quando si sta insieme.
È questo uno dei tanti denominatori comuni dei sette racconti di Ghiotti: un amore ancestrale che si manifesta in forme sempre diverse, ma sempre al massimo dell’intensità, vite vissute fino in fondo quando sembra il solo momento per farlo, quando l’adolescenza serve soltanto a questo. Allora, le amicizie sono sempre indissolubili e immortali fino a quando non finiscono (Al largo), gli amori sono sempre intensi, insicuri e per il tempo di un’estate (Il segreto) e le bambole di porcellana sono sogni che non tornano più, sogni lontani che, quando cadono, vanno in frantumi (Il nostro secolo breve). Sono gli «anni un po’ andati e un po’ no, un po’ storti e mai dritti davvero nemmeno a volerlo, ma belli come sono belli tutti quegli anni che bruciano veloci e non tornano indietro neanche a pagare oro incenso e mirra». Tuttavia, l’adolescenza di cui parla l’autore non assomiglia a un oggetto di studio da rigirare tra le mani, non è il resoconto di una trasformazione biologica e psichica letto da una qualche voce rassicurante; è, invece, una bobina di immagini appena girate, in presa diretta, di cui non si taglia nemmeno una scena, e il regista è anche l’attore che interpreta i ruoli.
Non per questo Dio giocava a pallone va inteso come qualcosa di assolutamente “naturale”, nel senso di “non soggetto alle regole”. Viceversa, lo stile di Ghiotti si riflette in una prosa altamente letteraria, una prosa talvolta centellinata che si apre a impetuosi scrosci di soggettività e in cui non manca un certo espressionismo, riferimenti al mondo della poesia. Esemplare, a questo proposito, l’incipit di Al largo («Di caldo ci morivano nelle nostre terre, e di nostalgia e mica d’altro, mai nessuno ci è schiattato di vecchiaia, tutti o per lontananza d’amore o per il caldo fortissimo»), da leggere e rileggere anche solo per “ascoltarne” il ritmo. Ma il tratto distintivo è sicuramente la potente commistione di popolare e colto, la citazione frequente e mai fine a se stessa, il segno linguistico sempre appartenente al piano della connotazione. «Noi non avremmo mai avuto le scorciatoie di Lucari, i suoi Ray-Ban e tutte le ragazze intorno, le più belle della scuola, però avevamo un barattolo e degli amici veri e una vita bella da costruirci come si fa coi Lego, mille pezzi una città e un milione un universo e un miliardo di incastri colorati una vita. Quella di Lucari era come i Lego che sarebbero usciti di lì a pochi anni: quattro incastri e hai davanti il mondo. E però non ti sei mica divertito». Sta tutta in queste righe la genesi di un mondo mitico, magico, violento e appassionato come quello dell’adolescenza narrata in modo incantevole da Ghiotti: una divinità che gioca a pallone, mattoncini colorati, un miliardo di incastri.
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