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“Dio perdona, Scopelliti no”

Da Carlas73

Questa era la frase con cui sono stata accolta, nell’allora Liceo Scientifico dove mio padre da poco aveva ottenuto il trasferimento, alla tenera età di 4-5 anni da un gruppetto di “giganti” di 16-17. Questo era quello che si diceva di mio padre, quando insegnava Matematica e Fisica al triennio del Liceo di quartiere, ed era la diretta conseguenza di quello che lui diceva dell’insegnamento e dei voti: “i voti vanno da 0 a 10” e sì che nella mia infanzia ed adolescenza ne ho visti di compiti corretti a casa su cui fioccavano voti improbabili come 2– ed 1+, ma ricordo anche quando rarissimamente ho visto 9 o 10 e mio padre che felice diceva “eh si, se lo merita perché mi ha trovato una soluzione al problema che io non avevo pensato”.
Vignetta papà Qui accanto una vignetta disegnata da qualche suo alunno, sufficientemente sicuro di sé da consegnargliela: l’ho ritrovata ad agosto rovistando tra i suoi libri di testo, prima di lasciarglieli come compagnia per il suo ultimo viaggio.
Lui era un insegnante anche a casa: severo, rigido, ma anche inaspettatamente disponibile ed aperto di mentalità. A lui ci rivolgevamo quando arrivate al liceo si cominciò a parlare di gite con pernottamento fuori: stranamente, dalla figura maschile della famiglia, arrivavano le autorizzazioni alle esperienze nuove, alle idee più innovative e più azzardate per due figlie femmine degli anni ‘70. Mio padre mi ha preparato tutte le volte che ho dovuto ripetere Matematica Generale I all’università, e quando non riuscivo a superarla mi diceva “sei l’alunna più preparata che io abbia avuto nello studio di funzioni”. Anche se poi, qualche anno dopo, quando ad un esonero di Politica Economica non ebbi un voto decente, mi propose di trasferirmi da La Sapienza all’università de L’Aquila (ma io, orgogliosa tanto quanto lui, non accettai).
Una persona seria e tutto d’un pezzo, ma anche inspiegabilmente giocherellone e scherzoso. Da piccole, la domenica mattina era dedicata ai giochi sul lettone dei miei, e lui nonostante la bassa statura tipica da uomo del sud, aveva una tale forza che con un solo braccio riusciva a bloccare le sue tre donne senza che potessero muoversi. Lui era una persona affettuosa, nonostante l’aspetto burbero e severo: a suo modo ci coccolava, come quando “rincapuzzava” le coperte del letto, o ci misurava la febbre appoggiando le labbra alla fronte e sapeva esattamente indicare se era 37.5° o 38°.
Nonostante fosse uomo di pensiero e ragionamento, era anche un ingegnere mancato: la cantina è ancora strapiena di tutti i suoi attrezzi con cui aggiustava, inventava, modificava e sistemava tutto quello che figlie e moglie chiedevano e che la sua mente creativa ritenesse utile per la casa e la famiglia. Magari qualcosa di questo suo ingegno fosse passato a me! Ancora rimane inattuata la promessa al nano di creargli un gancio per appendere il bersaglio al tavolo da ping pong.
Un uomo di forti passioni, profondamente colpito dalla guerra e dalla mancanza di libertà del periodo fascista: era rimasta inalterata negli anni la sua ansia di avere sempre il pane in casa, e la sua forte visione politica e storica che mi è stata trasmessa come per osmosi.
Un uomo fondamentalmente sensibile e sentimentale, nonostante la sua immagine ruvida e resistente: ricordo le sue lacrime al mio primo aborto, e quelle dopo alla nascita del nano quando era rinchiuso nel reparto di Chirurgia Neonatale. Sfortunatamente, non mi rimangono molte sue foto di quando eravamo piccole: ce le faceva, ma era restio a farsi fotografare; la migliore degli ultimi anni rimane quella del battesimo del nano, sorridente e felice del nipotino.
Quest’uomo e questi ricordi mi sono stati portati via da una malattia antipatica, che me lo ha reso quasi estraneo nei suoi scoppi d’ira e nella sua inedia finale: una malattia che avrebbe odiato con tutte le sue forze e con tutto il suo orgoglio se se ne fosse reso conto, perché del suo vero io non ha lasciato intatto praticamente nulla, né il suo cervello né i suoi affetti. Ed adesso, mi ritrovo a dover riportare alla luce con fatica le memorie che avevo seppellito durante la malattia perché non mi facessero troppo male e troppa rabbia, per poter ritrovare quella figura che stimavo e rispettavo, il papà a cui volevo bene e che vorrei fosse stato conosciuto dai nipoti per quel che veramente era.


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