Ammetto di essere entrato in Bolivia molto emozionato. Era un luogo nel quale da tanto desideravo mettere piede. A pensarci, non so bene da quanti anni. Poi uno rimanda, rimanda, va da altre parti, si diventa sempre piu’ grandi (vecchi) e la lotta per mantenere intatti i propri sogni – e magari aggiungerne altri – si fa un po´piu´complicata. Speriamo che il tempo renda anche piu´grosse le nostre spalle.
Cosi’, partiti da Puno, sul lago Titicaca, abbiamo costeggiato l’immensa distesa d’acqua. Andando verso la sponda Boliviana, il lago assume un tono piu´ chiaro e tenue, mentre gli accessi diventano sabbiosi. Il primo paese boliviano si chiama Copacabana, proprio come la spiaggia di Rio. Scesi dall’autobus, abbiamo sbrigato le pratiche doganali e siamo partiti per La Paz. Pur venendo dal Peru´, paese sicuramente non ricco, entrando in Bolivia la miseria e´travolgente. Ho rivisto tante immagini dei miei trascorsi viaggi in Brasile con l’Associazione Modena Terzo Mondo. Uno guarda e china gli occhi. La Paz ci accoglie con la sua grandezza che si coglie tutta, col colore uniforme del mattone e della ruggine. Distesa entro una conca, protetta dalle cime innevate della Cordigliera, sembra senza ingresso e uscita. Il terminal degli autobus, dove arriviamo nel tardo pomeriggio, ha la pelle moderna e i tessuti disfatti. Le grida delle impiegate, nelle varie agenzie di trasporti, gli danno l’aria popolare di un grosso mercato. Poi ci sono mendicanti in ogni angolo mentre una voce cortese, in ottimo inglese, ripete il suo benvenuto nella capitale dello stato e invita a tenere d’occhio i propri bagagli.
L’idea era scendere verso una citta’ che si chiama Sucre, capitale culturale della Bolivia. Impossibile. Mi spiegano che i picchetti degli operai hanno bloccato le strade che collegano il Nord con il Sud. Non si puo´andare da nessuna parte. E io comincio a chiedere per Potosi’, per una vi alternativa, mostro la cartina. Nulla. L’impiegata, cortese e annoiata, mi dice che ci sono diverse “tensioni sociali”. Si puo’ andare solo in Amazzonia o a Santa Cruz. Dopo un po’ di pellegrinaggio, troviamo un buco per un autobus verso il Sud che percorre una carrettera non asfaltata. Un autobus per Uyuni. Partiamo.
Viaggare di notte, in questi autobus, e´sempre piccola esperienza di quelle che restano. Perche´ dura molto. Perche´ senti gli odori, ascolti le persone della terra che ti ospita, hai tempo di guardare, guardare, guardare, provare a dormire, incazzarti come una bestia perche´ il bus si ferma ovunque e senza motivo, nessuno fornisce spiegazioni, nessuno si cura del tuo diritto di arrivare. Poi vedi che il mondo e´ grande. 15 ore di autobus e ci spostiamo di un misero centimetro sulla cartina. Capita sempre un po’ di tutto, piccole cose, per l’amor di Dio, ma che danno colore e fanno pensare e aiutano a capire. Questa notte dovevamo partire alle 19. Siamo partiti alle 20, senza motivo. Nessuno sapeva e nessuno chiedeva. Poi l’autobus si e´ fermato per mezz’ora dentro La Paz. Poi ancora. Poi l’autista e´sparito. Era andato a cena. E’ giusto: mica si puo’ guidare a stomaco vuoto. Insomma, alle 21 eravamo ancora a La Paz o giu’ di li’. Cosi’ ho avuto modo di farmi sbollire l’incazzo guardando per due ore la citta´illuminata sul fianco della valle col nevado che brillava sotto la luna. A mezzanotte la strada e’ diventata sterrata, poi e’ sparita proprio. Un deserto sull’altipiano con un cielo meraviglioso dove brillava la Croce del Sud. L’autista guidava andando dritto, mentre ogni tanto un qualche passeggero aveva la buona idea di andargli a dire che si era sbagliato. Mi sono svegliato verso le due completamente ghiacciato, nonostante il riscaldamento che mi pompava aria calda sui piedi e le due coperte che avevamo addosso. La cosa piu’ bella: i vetri della corriera erano gelati nell’interno. Bellissimo, almeno come scoperta. Mia nonna me ne aveva parlato tante volte di quelle notti in montagna coi vetri congelati. Fuori il cielo continuava a spingere e noi “Basta!” che se no troppa luce ci spiazza e confonde il pilota. Il deserto sembra innevato, ma e´ solo polvere, come sempre. Stamattina abbiamo iniziato l’attraversata del Salar, il piu´ grande deserto di sale del mondo. Immaginate una distesa bianca, brillante come la cosa piu’ brillante che abbiate visto, lunga sino all’orizzonte. Sul fondo, le montagne, che per contrasto appaiono blu.
Poi siamo arrivati, finalmente, alle 10. Uyuni e’ un paese grigio e polveroso, immerso nel deserto all’incrocio di due binari. Nel pomeriggio, camminando lungo i binari, la scoperta del grande cimitero dei treni. Convogli distrutti di tutti i tipi sino alle locomitve del primo novencento, insabbiati, mezzi dissolti in chiazze sanguigne di ruggine. Il vento, gelido (di notte qui fa meno 10), sbatte le lamiere, e nel silenzio degli uomini che non parlano piu’ aiuta il cimitero a cantare. Un canto metallico, malinconico, mentre passeggiamo tra le carcasse di ferro e pensiamo, senza toccare il deserto, a quanto la nostra presenza sia trascurabile.