Agli inizi degli anni novanta del secolo scorso in Italia partì una delle più grandi operazioni di privatizzazione di aziende pubbliche della storia dell’ultimo secolo. Il tutto avvenne sull’onda dell’indignazione per i ladrocini perpetrati dalla classe dirigente della fase terminale della prima Repubblica. Lo Stato imprenditore andava smantellato si diceva sulle pagine dei giornali liberali dell’epoca (la Repubblica, il Corriere, la Stampa e il Sole24Ore) per sottrarre ad una politica immorale e ladrona i suoi più importanti polmoni finanziari e i suoi maggiori strumenti di clientela. I corifei ci assicuravano che solo grazie al mercato si sarebbe avuta – finalmente – meritocrazia ed onestà. Ma a distanza di venti anni come sono andate le cose? Le promesse sono state mantenute?
E’ evidente come l’argomento sia particolarmente articolato e complesso, impossibile da affrontare in maniera esaustiva su un blog ma alcune considerazioni possono essere fatte anche sulla scorta di alcuni fatti di cronaca e di alcune dichiarazione, particolarmente significative, di questi giorni. Qualche giorno fa, per esempio, l’ex ministro Franco Bassanini ha seraficamente dichiarato come la privatizzazione di Telecom sia stata un grave errore. Effettivamente, la situazione di Telecom è particolarmente preoccupante dal punto di vista dei debiti diretti (quelli che fanno capo direttamente alla società) sia indiretti (quelli che fanno capo alla filiera societaria che ne detiene il controllo). Credo vada ricordato che la società quando fu privatizzata non aveva neanche una lira di debito ed era una delle più grandi società di telecomunicazioni d’Europa. La privatizzazione seguì un canovaccio degno di un financial thriller di terza serie (di quelli che un tempo regalavano sul Sole24Ore per intenderci): all’inizio il potere politico si indirizzò verso una struttura proprietaria ad azionariato diffuso (però con la presenza di un “nocciolino duro” ovvero regalando il controllo ad alcuni azionisti di gran nome in ossequio all’adagio cucciano secondo il quale le azioni si pesano e non si contano), successivamente il governo D’Alema indirizzò l’assetto proprietario verso alcuni grandi imprenditori emergenti che volevano – forse nelle intenzioni dei governanti - essere novelli imprenditori innovatori così come sognati da Schumpeter. L’unica vera innovazione fu però di ordine finanziario: il leverage buyout. Tale operazione non è null’altro che l’acquisto a debito della società: nello specifico i cosiddetti “capitani coraggiosi” acquistarono Telecom grazie ad una società veicolo che aveva preso a prestito i soldi da un pool di banche. In sostanza i supposti schumpeteriani non ci misero una lira di tasca. Ma non finisce qui, infatti successivamente la società veicolo fu fusa nella Telecom. Dunque la Telecom stessa pagò il prezzo della sua scalata. Questa è l’amara verità di un esempio di finanza strutturata che null’altro fu se non un operazione di pirateria perfettamente legale. Abbiamo toccato il fondo? No. Infatti dopo qualche anno la società fu rilevata dall’erede di una delle famiglie più nobili del panorama industriale italiano: Tronchetti Provera proprietario della blasonatissima Pirelli. Qui la storia triste della Telecom tocca probabilmente il punto più basso. Infatti se l’opera di spolpaggio perfettamente legale della Telecom continuò grazie, per esempio, alla vendita del suo immenso patrimonio immobilare a società (Pirelli RE ecc.) appartenenti alla galassia tronchettiana ad essa si aggiunsero strane storie di spie ed intercettazioni ancora oggi al vaglio dell’Autorità giudiziaria. Risultato di questa ventata di efficienza prevista dalla privatizzazione? Ben 28 miliardi di euro di debito previste dalle ultime stime oltre alla svendita del patrimonio immobiliare e della maggior parte delle controllate estere. Quella che era una delle maggiori società italiane – costruita con il sudore e le fatiche di un intero popolo – è ridotta così ad un colabrodo schiava dell’interesse sul suo immane debito. Dove sono i pensosi editoriali dei maestri liberali che dalle colonne dei giornali ci promettevano un futuro radioso grazie all’efficienza portata dal libero mercato?
Altro esempio eclatante è quello di Alitalia. La sua privatizzazione a vantaggio dei soliti capitani coraggiosi (!) a quanto pare – è notizia di oggi – non pare abbia dato profittevoli risultati: pare che la compagnia aerea bruci cassa a livelli paurosi e quando la cassa finisce, si sa, le alchimie di bilancio non servono a nulla: o si ricapitalizza o si portano i libri contabili in tribunale. Da notare che all’atto della privatizzazione fu concesso – dal governo Berlusconi – il monopolio nella tratta più redditizia, quella Roma-Milano, con tanti complimenti alla mano invisibile di Adam Smith e al suo libero mercato. Non solo, le casse del welfare statale si accollarono migliaia di esuberi e infine centinaia di milioni di debito della vecchia Alitalia furono fatti confluire in una cosiddetta bad company che è null’altro che il nuovo modo per dire “paga pantalone”. Nonostante tutto ciò anche qui l’efficienza del mercato non è arrivata: i capitani coraggiosi (con i soldi altrui) non riescono a rimettere in carreggiata la società e si rischia un nuovo fallimento, o più probabilmente un nuovo salvataggio a spese del contribuente.
Lascio per ultimo, in questa breve carrellata, il caso più penoso: quello della banca più antica del mondo (in realtà non è vero, la banca più antica d’italia è il San Paolo di Torino). La privatizzazione ha seguito vie che credo sia giusto chiamare oblique. Una legge folle fatta da Amato all’epoca del collasso della Prima Repubblica ha dato la proprietà ad una fondazione nata per “gemmazione” che null’altro è stato che l’infeudamento a potentati locali. Tra lotte cittadine per il controllo della gallina dalle uova d’oro (basti ricordare l’epurazione del bravo sindaco di Siena Pierluigi Piccini, uno che poteva fare strada anche a livello nazionale) la banca ha posto in essere una serie di operazioni folli dal punto di vista gestionale e aziendale (basti ricordare il caso di Banca121 e quello pazzesco di Banca Antonveneta) con il risultato che in questa banca si è aperta una voragine paurosa che lo stato (noi cittadini, si capisce) è chiamato a tamponare. Si potrà dire che in realtà questo è proprio l’esempio di una gestione statalista. Falso. Infatti la banca fu quotata in borsa è i mercati finanziari – si capisce – pretendono alti rendimenti per i propri investimenti. Credo sia giusto dire che molte delle operazioni folli che hanno contraddistinto la gestione post riforma Amato siano frutto della necessità di garantire utili e dividendi di breve periodo ai mercati dimenticandosi delle conseguenze di medio-lungo periodo sulla stabilità strutturale dell’azienda di credito. Sul resto farà luce la magistratura. Si spera.
Qual’è la morale di questa, obbligatoriamente, breve carrellata? Semplicemente che le privatizzazioni non hanno dato alcuno dei vantaggi ipotizzati venti anni fa ma hanno infeudato aziende floride a capitalisti senza capitali e soprattutto senza talento innovativo ma invece forniti di buoni uffici nelle stanze del potere e di un appetito famelico degno dei piranas amazzonici.
Altra indicazione che si dovrebbe trarre è che la fame di dividendi dei mercati finanziari va a scapito di investimenti di lungo periodo e di una oculata programmazione. Anzi, si può dire che per garantire gli utili attesi (mai inferiori alla media del settore, per Bacco!) si gravano le società di ulteriori debiti sui quali sfortunatamente verrà pagato un interesse che graverà sulla possibilità/capacità di creare utili per il futuro. Verrebbe da dire – ma credo sia la scoperta dell’acqua calda – che proprio il sovraindebitamento è la causa principale del crollo del saggio di profitto di marxiana memoria.
Possibili soluzioni? Solo lo Stato è in grado di garantire una visione di lungo periodo fatta di investimenti per l’innovazione all’interno dell’azienda. Questo perchè è l’unico attore economico che può mantenere la proprietà di un’azienda che per lunghi anni da un utile pari a zero.
Questo vuol dire che la soluzione di tutti i mali è una società dove l’unico proprietario dei fattori produttivi è lo stato? Probabilmente no. Nel mondo nascono uomini di genio (imprenditori innovatori direbbe Schumpeter) che hanno il diritto umano di esprimere il proprio talento e possono dare una spinta a quel fenomeno – l’innovazione - che è alla base della prosperità al di là del sistema economico (statalista-comunista o liberale-privatista) che si preferirebbe favorire. Insomma, l’esatto opposto di ciò che si è fatto con le privatizzazioni all’italiana che hanno favorito o potentati politici locali (MPS) o imprenditori parassiti.
Ecco, forse questa catastrofe ci insegna che è necessario coniugare i due più grandi economisti di sempre: Karl Marx e Josef Alois Schumpeter.