discettazioni amorfe su un nirvana capovolto: la dialettica dello spazio come categoria interiore è il riflesso di un status quo limaccioso e putrescente

Creato il 02 luglio 2010 da Nefarkafka666

La risata, in quanto manifestazione di necessità primigenia ed istintiva, è un’espressione dell’animo umano profondamente inquietante. La ragione è molto semplice: visto che non c’è un cazzo da ridere, che cazzo ridi a fare? Nella grande azienda sono di rigore facce lunghe e cupe: dopo un po’ che ci lavori i muscoli facciali non più stimolati si atrofizzano e tutti i dipendenti arrivano quindi a somigliarsi. Sembrano tutti fratelli di Lurch il maggiordomo della famiglia Addams. Anche le donne. Le ragioni sono molteplici. La prima è che lavorare nella grande azienda è esaltante come la lettura della mano di un minatore belga. La seconda è l’atmosfera affabile e confidenziale come quello di un mattatoio clandestino incendiato dal napalm. E la terza è senza dubbio la componente interpersonale contraddistinta dal fatto che frequenti quotidianamente accademici del rutto, esegeti della deiezione anale applicata alla dialettica e in generale gente il cui cervello è solo un elemento architettonico che impedisce alla scatola cranica di collassare su se stessa.

Pertanto se trovate qualcuno che ride se va bene è perché prima di uscire ha mollato una ricca flatulenza all’uranio impoverito nel montacarichi. Tuttavia non è improbabile che abbia un fucile a canne mozze nascosto sotto l’uniforme e che abbia deciso di essere l’equivalente umano di uno spazzolone nel cesso di un autogrill (con l’ovvia differenza che nella grande azienda di solito non ci sono scritte oscene e divertenti da nessuna parte).

La crisi economica globale è sicuramente un deterrente enorme per il buon umore. Questo ovviamente vale per i dipendenti con la cassa integrazione a zero ore che hanno espressioni inebetite e catatoniche come i fan degli Eyehategod. Gli amministratori, invece, sono solitamente sereni e gaudiosi come una novella di Pietro Aretino e con le loro facciotte alla Alvaro Vitali ti mettono di buon umore. La piacevole sensazione dura circa trenta secondi: dopo ti ricordi che hai un’ipoteca sulla casa che probabilmente verrà estinta al termine della prossima era glaciale, una carcassa di automobile che va a vapore e un pacco di cambiali contratte con un tale noto ai più come “Zì Peppe cravatta”. E allora inarrestabile sopraggiunge il desiderio di strangolarli con un rotolo di filo di spinato rubato dal capanno degli attrezzi di un cimitero di provincia.

All’uscita dal turno di notte della grande azienda si ha la possibilità di verificare in modo inequivocabile che George Romero per i suoi zombi non si basò al romanzo Io sono leggenda come tutti dicono: il passo strascicato, lo sguardo narcolettico e la vitrea assenza di stimoli cerebrali dei dipendenti rappresentano la quintessenza dell’orrore, la definitiva manifestazione che la realtà nelle sue espressioni più basse e quotidiane è apocalittica come le peggiori profezie.

Lavorare nella grande azienda vuol dire comprendere che all’inferno si timbra il cartellino.


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