Discorso d’insediamento del Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi
11 maggio 1955
Onorevoli deputati, onorevoli senatori!
Il periodo che si chiude con la settennale presidenza di Luigi Einaudi apparirà nella storia del nostro Paese come uno dei più significativi e fecondi.
L’Italia, uscita dal terribile travaglio della guerra, ha atteso con tenace volontà a curare le sue ferite, a restituire al proprio organismo le possibilità fisiologiche di normale esistenza, a riconquistare il suo posto di nazione libera nella grande famiglia dei popoli europei.
Luigi Einaudi, al quale il mio pensiero va con affettuosa reverenza, ha bene meritato della Patria per la saggezza, la lunga esperienza nutrita di studi, l’esemplare correttezza del suo reggimento; ed a lui si volgeranno memori e riconoscenti anche le nuove generazioni. (L’Assemblea sorge in piedi ed applaude vivamente).
Nel succedergli, la mia trepidazione è profonda non soltanto per l’arduo impegno richiesto dall’esigenza di continuare degnamente una tradizione, che ebbe alto inizio dall’illuminata direzione di un altro grande italiano, Enrico De Nicola (L’Assemblea sorge in piedi ed applaude vivamente); ma per l’attesa viva, spontanea, fiduciosa che verso di me si rivolge da ogni parte politica, da ogni ceto sociale del nostro paese.
Forse mai, e non credo che ombra di vanità mi faccia velo, la più alta istituzione della Repubblica è stata così vicina all’anima popolare come in questo momento (Vivissimi, generali applausi); mai un’ansia di rinnovamento si è levata a cuore così aperto da ogni zona dell’opinione pubblica verso colui che ha ricevuto da una solenne indicazione del Parlamento il mandato per la suprema magistratura dello Stato.
Quest’attesa E quest’ansia non mi sgomentano, ma fanno più presente e ammonitrice in me la coscienza della responsabilità.
Dicevo che non mi fa velo alcun’ombra di vanità, perché comprendo bene che non è la mia persona, quali che siano le qualità benevolmente attribuitemi, l’elemento determinante dello stato d’animo comune a tanta parte del popolo italiano. Ma è la percezione precisa nella coscienza pubblica che un ciclo decennale si è chiuso, ed una nuova fase si inizia. (Vivissimi applausi a sinistra e al centro).
I problemi fondamentali del passato sono stati la ricostituzione dello Stato nella sua organizzazione e nella sua autorità, la ricostruzione economica, finanziaria, sociale dell’apparato produttivo, il superamento nel campo internazionale della nostra inferiorità di vinti. Soccorsero allora lo sforzo verso le soluzioni auspicate, il riconoscimento di quell’esigenza di concordia fra uomini e partiti che emerge istintivamente dalla volontà di sopravvivere, e la solidarietà concreta che, a superare il travaglio della nostra economia, venne soprattutto (va ricordato con sincera gratitudine) dal popolo americano. (Vivissimi applausi al centro).
Poi le parti politiche, i vari ceti sociali andarono accentuando per naturale processo la loro libera differenziazione nella valutazione dei problemi, nella scelta delle soluzioni attraverso una revisione dei rispettivi orientamenti. Così nella vita interna della nostra Italia e di molti altri paesi, come nella vita internazionale.
Qualche cosa è accaduto, nelle coscienze e nelle vicende, in questo agitato dopoguerra. Ma il nuovo che preme sotto la dura scorza dei pregiudizi, delle abitudini e degli interessi, con l’impeto elementare delle germinazioni naturali, non ha preso forma, ancora, né aspetti precisi.
Dalle tragiche esperienze della storia lontana e vicina scaturisce la persuasione che è necessaria la solidarietà dei popoli affinché la civiltà stessa, coi suoi valori morali ed umani, non perisca. Ed il nostro paese ha inquadrato con legittime e meditate decisioni la sua politica nelle intese pattuite fra i popoli occidentali non solo per una preoccupazione di difesa della propria indipendenza, ma per muovere un primo passo verso integrazioni più complesse e più vaste, che, senza negare od anche soltanto sminuire il sentimento sacro della patria, lo armonizzino in una concezione superiore di pacifica convivenza. (Vivissimi applausi al centro e a destra). Ma oggi il popolo, più consapevolmente che mai, avverte come per il successo di una tale politica debba fare assegnamento su di una propria responsabile visione dell’avvenire e sulla propria volontà di lavoro.
Sullo sfondo delle difficoltà interne, liberandosi dall’asprezza della lotta fra ideologie ed interessi contrapposti, emerge dai contrasti sociali il riconoscimento che è interesse comune la collaborazione: una collaborazione che non sia rinunzia per alcuno od attenuazione dei diritti legittimi, bensì accettazione di un limite atto a garantire il reciproco rispetto di questi. Ma il clima permane agitato, le previsioni per il domani sono ancora grigie ed incerte: non è scomparso dalle zone della pubblica amministrazione né da quelle del lavoro privato quel senso di insicurezza che conferisce un carattere di lotta alle rivendicazioni di migliori condizioni di esistenza. E soprattutto assai basso è il livello di vita di tante famiglie, e troppo ancora è il potenziale di lavoro inerte od insufficientemente utilizzato, preziosa riserva di energie ancora negate allo sviluppo del nostro paese. (Vivissimi applausi).
L’attesa che circonda l’inizio del mio mandato deriva dalla persuasione, chiara in tutti, che occorre affrontare la nuova fase del nostro cammino con misurato ardimento e con adeguata visione dei fatti. Dato centrale di interpretazione del presente corso di questi mi sembra la constatazione, nella quale ben difficilmente ci si può esimere dal convenire, che nessun progresso vero si realizza nella vita interna di ciascuna nazione e nei rapporti internazionali senza il consenso ed il concorso del mondo del lavoro. (Vivissimi, prolungati applausi). Io sono lontano dall’escludere da questo mondo i dirigenti e gli imprenditori, che tanta parte sono del sistema produttivo; ma essi hanno già nella organizzazione politica dello Stato moderno un’influenza che è adeguata alla loro importanza economica.
Io posso perciò riferirmi soprattutto a quelle masse lavoratrici ed a quei ceti medi che il suffragio universale ha condotto sino alle soglie dell’edificio dello Stato senza introdurle effettiva mente dove si esercita la direzione politica di questo. (Vivissimi applausi a sinistra e al centro). Io credo fermamente che sia interesse fondamentale della democrazia realizzare pacificamente tale inserzione, per rafforzare le basi della stabilità degli istituti attraverso l’ampliato consenso. E credo che a soddisfare tale esigenza non si giunga se non attraverso il riconoscimento concreto dei nuovi diritti e della nuova posizione del lavoro, della trasformazione, sia pur graduale ma sostanziale ed effettiva, dei rapporti fra i ceti e le classi che debbono cooperare al comune benessere economico e civile.
Questa è insieme opera di progresso e di conservazione, di intervento dello Stato e di rispetto dell’iniziativa privata.
Nuove forme di organizzazione economica si palesano in continua preparazione, ma non è facile prevedere la esatta configurazione del futuro ordinamento. A me sembra si possa solo determinare l’indirizzo di questa trasformazione, nel senso che nella vita economica la considerazione dell’interesse generale della comunità tende a prevalere su quella degli interessi particolari (Vivissimi applausi), anche quando questi trovano appoggio nell’ordinamento giuridico in vigore, come se esso pure non si trovasse coinvolto nel travaglio della trasformazione.
Perciò l’azione pubblica, che prima si dispiegava quasi clandestinamente a favore dello sviluppo della linea sociale dell’economia, tende ora a palesarsi con chiarezza di compiti e con coordinazione di interventi. Ed il valore positivo di tale indirizzo non deve a nessuno apparire infirmato dal fatto che il processo di trasformazione incorre sovente in ritardi, procede per tentativi, deve subire correzioni le quali implicano «sfridi» di risorse (per usare un termine corrente del gergo economistico), i cui oneri sono più pesanti per i paesi a scarsa prosperità economica.
L’ansia di ricerca di nuove forme di economia non può distaccarsi dalla volontà di garantire il pieno esercizio della libertà individuale. Questa volontà è legittimata anche dalla constatazione dell’impareggiabile flusso di energie creative di cui è capace una illuminata utilizzazione dell’iniziativa privata. Ad essa sarebbe impossibile rinunziare senza incorrere in perdite gravissime di ricchezza e di benessere. Il problema è di eliminare la contradizione tra l’immensa utilità che si deduce dal sano svolgersi dell’iniziativa privata e l’osservanza dei diritti più sacri della giustizia e della libertà umana. La contradizione appare invece innegabile per i tentativi di predominio che talvolta grosse concentrazioni della ricchezza esercitano anche sui pubblici poteri, sicché la necessità di disciplina e di contenimento delle posizioni monopolistiche è chiaramente ispirata dall’interesse comune. (Applausi).
Né questa ansia di ricerca può prescindere dalla esigenza inderogabile di mantenere condizioni di sanità monetaria, attraverso una saggia politica finanziaria per gli investimenti e per le spese. Ma, se in qualsiasi compagine nazionale è compito peculiare dell’azione pubblica trasformare in nuove fonti di utilità lo scoperto inattivo dei fattori produttivi, la cui inerzia denuncia la esistenza di potenzialità economiche non ancora tradotte in atto, per l’economia italiana tutti debbono riconoscere che il primo problema da risolvere in ordine di urgenza è costituito dalla eliminazione della disoccupazione, che si accompagna alla miseria ed agli stenti. (Applausi). E per liberare il più rapidamente possibile tutti ed ognuno dall’angoscia dell’incertezza del pane, occorre che alla continua espansione del reddito nazionale si accompagni un impegno di fondo per migliorarne la distribuzione nel senso di un costante sviluppo della linea sociale dell’economia.
E, sempre nel quadro di una sanità monetaria consapevolmente realizzata e mantenuta, la trasformazione dell’ambiente fisico e sociale del Mezzogiorno, già efficacemente iniziata, deve procedere col ritmo più intenso, affinché le nuove occasioni di lavoro si tramutino in fonti di occupazione stabile e continua; e si impedisca l’aggravarsi dei dislivelli regionali di produzione e di reddito fra nord e sud che travagliano penosamente l’efficienza operativa dell’economia nazionale. (Vivi applausi).
Lo Stato può dare un valido concorso a nuove forme di rapporti fra le categorie sociali; soprattutto in Italia, dove la presenza delle aziende I.R.I. in tanti settori dell’attività finanziaria ed industriale può essere organicamente indirizzata ad esperimentare una collaborazione razionale dei vari fattori della produzione (Vivissimi applausi a sinistra e al centro), dando al lavoro il posto che gli compete anche per lo spirito della nostra Costituzione. Distinguere in questo campo la responsabilità dello Stato da quella dell’iniziativa privata non vuol dire contrapporre le due forze, ma integrarle e farle motrici di un costante progresso. (Applausi).
Non è mio compito segnare dettagliati programmi ma io penso che, convenendo su questi orientamenti generali, il Parlamento abbia una insostituibile funzione per far si che l’ordinamento giuridico venga impegnato nell’accompagnare e regolare senza intralci e senza ritardi, con meditate decisioni ma insieme con vigile ardimento, le trasformazioni delle strutture economiche e sociali. Allo Stato spetta in primissima istanza la responsabilità di mantenere le condizioni necessarie all’ordinato sviluppo democratico della comunità nazionale. Lo Stato è imparziale tutore dei diritti di ciascuno, della libertà, dell’uguaglianza dei cittadini nella legge: ma insieme deve inflessibilmente imporre a tutti i doveri imprenscindibili di un’ordinata convivenza. (Applausi)
Non è una definizione puramente giuridica lo Stato di diritto: è l’espressione di un’esigenza politica e sociale alla quale la democrazia deve tendere, come a fine inderogabile, se vuole affermarsi e sopravvivere. Una voce, la più autorevole nel mondo, alla cui alta saggezza possono con obiettiva deferenza ricorrere anche coloro che non hanno il dono di una fede religiosa, ha ammonito in giorni recenti che nessuna legge e nessuna riforma istituzionale possono essere feconde di bene, «se l’uomo comune vive nel timore di subire l’arbitrio (Vivissimi, prolungati applausi), e non perviene ad affrancarsi dal sentimento che egli sia soggetto al buono o cattivo volere di coloro che applicano le leggi o che come pubblici ufficiali dirigono le istituzioni e le organizzazioni; se si accorge che nella vita quotidiana tutto dipende da relazioni che egli forse non ha, a differenza di altri; se sospetta che, dietro la facciata di quel che si chiama Stato, si cela il giuoco di potenti gruppi organizzati».
Nessuna parola potrebbe più esattamente definire il carattere e le responsabilità di un Capo di Stato per quanto riguarda la piena osservanza della Costituzione, delle norme e degli ordinamenti sui quali essa ha creato la nuova Repubblica italiana; e dare un contenuto concreto ed imperioso al mio giuramento. Per questo mi consentirete di richiamare la necessità che la Costituzione sia compiuta negli istituti previsti (Vivissimi, generali applausi), quali la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, l’ordinamento regionale, il Consiglio dell’economia e del lavoro; e nell’adeguamento della legislazione e del costume. E so di non indulgere a sensibilità convenzionali se richiamo a tutti l’alto valore di un impegno di moralizzazione severa della vita pubblica e privata (Vivissimi applausi), se affido la collaborazione per il consolidamento delle istituzioni più al costume che non alle norme, e se fondo le speranze di distensione e di rasserenamento dell’orizzonte politico e sociale sul vincolo da tutti apertamente e sinceramente accettato di soggezione alla legge ed all’imparziale autorità dello Stato. (Vivissimi applausi).
Onorevoli deputati, onorevoli senatori!
La nuova fase della nostra vita nazionale concide con un corso dei rapporti internazionali che accenna nuovi orientamenti. Proprio in questi giorni i tre maggiori governi occidentali, accogliendo un’aspirazione che in Italia veniva da ogni ceto ed ebbe anche la sanzione di un voto parlamentare, si accingono a predisporre una conferenza a quattro nella quale si può ormai prevedere che saranno esaminati tutti i problemi che dividono in Europa l’Occidente dall’Oriente, e nel mondo milioni di uomini in opposte trincee. L’Italia ha voluto e vuole la pace; la pace nel rispetto reciproco della libertà e dell’indipendenza, nella sola preoccupazione di realizzare la più sicura difesa delle proprie tradizioni e dei propri istituti. Perciò da tutti i patti che sono stati sottoscritti coll’espresso consenso del Parlamento, ed ai quali il popolo italiano intende lealmente tener fede (Vivissimi applausi al centro e a destra), non può che esulare qualsiasi anche dissimulato intento di aggressione. (Applausi). Io so di interpretare il pensiero di tutti gli italiani qui e fuori di qui augurandomi che questi sforzi di riavvicinamento per una pacifica convivenza raggiungano con la buona volontà di tutti (dico di tutti, poiché la buona volontà di tutti è indispensabile) il miglior successo, sicché da intese limitate e specifiche si possa gradualmente passare ad accordi più vasti che con un progressivo controllato disarmo rendano meno lontana e meno difficile la pace, che é condizione di prosperità per tutti. La nostra opera sposerà sempre alla tenace difesa degli interessi nazionali e della democrazia questo superiore ideale umano e cristiano. (Vivissimi applausi).
Onorevoli deputati, onorevoli senatori!
Io posso in questa visione volgere il mio pensiero alle nostre Forze armate (L’Assemblea sorge in piedi, Vivissimi generali prolungati applausi), parte cara del nostro popolo in armi, talvolta sfortunata, sempre gloriosa per fedeltà alla patria e spirito di sacrificio, nella guerra e nella Resistenza (Vivissimi applausi a sinistra e al centro — Si grida: Viva la Resistenza!); e posso vederle non soltanto come strumento di ancor necessaria difesa, ma come scuola di generosità, di ardimento, di devozione al dovere.
Io compirò, nei limiti modesti delle mie forze, quanto la Costituzione — solenne espressione dei doveri civili e nazionali — mi impone. Mi sia vicino il Parlamento, massimo istituto di libertà e di democrazia, colla sua saggezza e colla sua concorde volontà di far grande e prospero questo nostro popolo italiano.
E Iddio illumini ed aiuti la nostra fatica!