È da sapere, prima di partire per un viaggio in questa direzione, che in Indonesia c’è questa cospirazione dei visti che si abbatte feroce su chiunque voglia vedere qualcosa in più delle solite due o tre tappe. C’è questa cosa che loro ti danno un mese di visto all’arrivo, facile, così, giusto il tempo di uno stampo, e ti fanno quasi credere che te in un mese puoi fare qualcosa. E te ci credi quando superi il confine. Insomma, un mese non è mica poco. Sai quante cose si fanno. Sai quante cose si possono vedere. No.
No perché in Indonesia te prendi un autobus di dieci ore e arrivi dopo tre giorni. Se non esplodi lungo la strada. Ma va bene, il viaggio è anche questo, e così prosegui, lentamente, sapendo che comunque esiste la possibilità di rinnovare il visto per un altro mese. Ma poi a rinnovare il visto per un altro mese ci metti dieci giorni, e così il visto di un altro mese è in realtà un visto di venti giorni, di cui la metà servono a spostarsi verso e da dove il visto lo rinnovi. Non è chiaro perché l’immigrazione è così ristretta sulla questione. Te glielo dici, sono qui a spendere soldi mica a far cucire palloni ai bambini, dammi un paio di mesi in più, ma loro no, non ti ascoltano e te devi correre, correre per saziare la tua curiosità. Insomma, se andate in Indonesia prendetevi un mese per ogni isola. Almeno.
Sumatra era la mia ottava ed ultima isola. I miei due mesi stavano giungendo a conclusione e dopo aver oltrepassato l’Equatore ed essere tornato nella più larga definizione che possa dare alla parola casa, l’emisfero boreale, era il momento di organizzare la traversata dello stretto di Malacca e raggiungere la Malesia peninsulare. Da Bukit Lawang un minibus ci scarica nella frenetica capitale di questa regione, Medan, dove un bemo pilotato in modo selvaggio da un uomo senza interesse alcuno per la prosecuzione della vita propria o altrui ci porta di fronte al centro commerciale Yuki, l’area in cui apparentemente sarebbe stato più semplice trovare da dormire, da mangiare e informazioni per i prossimi spostamenti. La poca strada percorsa nella lunga ora di traffico è resa meno monotona dal continuo sputare, dentro e fuori il veicolo, fumare, e ciò che ho interpetato come il bestemmiare in Bahassa Indonesia, raggiunge una sopresa che avremmo fatto a meno di trovare.
Il traghetto Medan – Penang non esiste più. Così ci dice l’ufficio turistico. Così ci dice l’agenzia di viaggi. Così ci dice l’hotel. Così ci dice il venditore di noodles sulla strada. O almeno credo, parlava arabo. Le informazioni su internet sono vaghe e confuse, c’è chi dice che la compagnia è fallita cinque anni fa con l’avvento dei più economici voli low cost, e c’è chi racconta di aver eseguito la leggendaria tratta fino a poche settimane fa, fatto sta che a me rimangono solo sei giorni di visto e non sembra esserci altra alternativa che volare.
Un po’ abbattuto per dover già abbandonare il progetto di percorrere tutta l’Asia, o quasi, via terra e di perdermi l’occasione di una, improbabile ma eventuale, battaglia con i pirati malesi, stavo quasi per cedere e volare. Se a questo si aggiunge che avevo già acquistato mesi fa un biglietto aereo da poco, con l’idea di buttarlo via successivamente, da mostrare all’immigrazione per ottenere il rinnovo del visto, il gioco era fatto, avevo già praticamente un piede tra le nuvole. Se non che scopriamo che un traghetto c’è.
Da Tajung Balai, quattro ore a sud di Medan, una nave porta ogni giorno passeggeri fino a Port Klang, il grandissimo porto di Kuala Lumpur. È fatta, siamo di nuovo in carreggiata. Prendiamo un treno che con tre dollari copre i duecento chilometri che ci separano dal porto di partenza. Ma ciò che troviamo è surreale. A Tajung Balai non devono arrivare molti turisti. Al cancello della stazione, file di tassisti e guidatori di becak si accumulano alle ringhiere come scimmie in gabbia, ad osservare i nuovi arrivati appena scesi dal treno. Qualcuno vorrebbe toccarci, avere un contatto con gli alieni. Qualcun altro vuole toccarmi la barba. Non è zucchero filato gli dico,mi cresce dalla faccia cazzo. E qualcuno, infine, ci offre anche i propri servizi. Finiamo per affidare le nostre sorti a quello che sembra essere l’unico in grado di mettere insieme due parole d’inglese, e riusciamo a farci portare alla biglietteria del traghetto, per poter ripartire la mattina successiva. L’amico non è dei più svegli, ma fiero di essere l’eletto a cui i forestieri si sono rivolti, non ci fa mancare un tour del posto per poter metter in mostra le sue nuove conoscienze.
“Questo è mio fratello, parla inglese” ci dice fermandosi in mezzo ad un gruppo di persone che come mosche ruotano intorno al becak. Ci osservano, ci studiano. Potrebbero essere scienziati. “È cristiano! Come voi!” No, non sono scienziati. E no, non possiamo essere amici perché sei cristiano. Anzi.
Alla biglietteria ci viene offerto di dormire in terra per prendere direttamente il traghetto in mattinata, ma decidiamo di optare per un letto vero e proprio, e ci facciamo portare dall’uomo dal sorriso facile a quello che sembra essere l’unico hotel in città con camere disponibili. Nella lussuosa struttura dove finiamo è in corso un compleanno cinese, dove al karaoke si alternano la maggior parte dei membri della famiglia, anche quelli a cui al cantare dovrebbe seguire l’arresto. Ma noi siamo contenti, ce l’abbiamo fatta, e con l’ingresso ad un nuovo territorio che ci attende a poca distanza dormiamo leggeri, con lo sguardo rivolto a domani, e lontano dagli scarafaggi che escono dal lavandino.