Di FRANCESCO TERZAGO
Come umanista, e occidentale, sono esterrefatto.
L’atteggiamento di questi ottusi miliziani che hanno distrutto il patrimonio culturale dell’Iraq offende ogni persona civilizzata; loro deturpano e annichiliscono le memorie del genere umano mentre noi affondiamo in un acquitrino che risponde al nome di ‘relativismo'; una ‘kultur’ come quella dell’Isis nega tutto ciò che è rappresentativo del pensiero moderno e progressista d’Europa; un pensiero doppiamente colpevole, a dir la verità, colpevole dapprima di non essere stato capace di creare una ‘cultura’ dell’Europa e, cosa altrettanto grave, di una evidente inconsistenza, una ‘debolezza di pensiero’ imperdonabile.
Per quanto tempo ancora saremo disposti a sopportare questo spettacolo indegno, queste provocazioni? Dinnanzi a una malvagità così evidente non è possibile distogliere lo sguardo ed è necessaria la più ferma condanna, le analogie con il nazismo sono sin troppo evidenti. L’unica mia perplessità è la seguente: con questi atteggiamenti che cosa desiderano ottenere, gli uomini e le donne dell’Isis?
Sono forse, anch’essi, in verità del tutto simili a molte persone che ci circondano; nella società dello spettacolo vi è un unico assioma: la via più breve per ottenere l’attenzione pubblica è quella da percorrere. Il rispetto per chi ci circonda, per gli altri esseri umani, perde ogni importanza e ci ritroviamo a considerare chi non aderisca ai nostri usi, alla nostra ristretta congrega, con distacco e con brutale violenza, una ‘sporcizia’ da rimuovere, parafrasando Bauman.
L’Isis, potrebbe darsi, corrisponde alla posizione apicale di quel processo che è sotto gli occhi di tutti: come mezzo per il conseguimento del nostro fine (individuale o del nostro gruppo), per l’appagamento del nostro ego, per dare sostegno alla nostra vacillante identità, ogni cosa è lecita; giustificheremo i nostri atti, animali razionalizzatori per eccellenza, costruendo miti, inventando tradizioni, riscrivendo il nostro passato ed epurandolo da ogni cosa appaia aliena ai nostri occhi; ci stiamo riducendo a ‘bambini onnipotenti’.
Quando ci si trova a cospetto di processi globali e inarrestabili, nel vano tentativo di non sentirvi anche noi effimeri, temporanei, ci si scopre disposti a qualsiasi cosa, la minaccia dell’atomica, che aveva tramutato, secondo Anders, l’uomo ‘in lampadina’ – non ci spaventa più, non è più un deterrente.
Il nostro desiderio è che ci sia restituita una collocazione nella storia, dopo la ‘fine della storia’. Non vogliamo entrare a far parte anche noi di quei miliardi di esseri umani che hanno calcato questa terra senza un’apparente ragione; molte persone illustri, giuste ed eccezionali non hanno lasciato alcuna traccia nella memoria collettiva né nella letteratura.
Se la globalizzazione riduce gli spazi dell’identità e sospende il tempo, proponendosi a sua volta come ‘kultur’ al declino delle ‘zivilisation’ dell’età moderna e occidentale, l’Isis rappresenta – forza reazionaria per eccellenza – il punto attrattivo di chi, più di ogni altro, non riesca a trovare una collocazione a questo mondo, a significare il suo esistere.
L’Isis distrugge la prova tangibile dell’opera degli antichi perché, trovandovisi al cospetto comprende la sua stessa fragilità, riflettendosi in quei mirabili esempi dell’ingegno umano comprende la sua transitorietà – il furore iconoclasta dell’Isis non ha nulla a che fare con la religione, è un simulacro – è il tentativo, praticando degli apocalissi tascabili, di assicurarsi uno ‘spazio vitale’ tra gli eventi significativi della storia umana; non considerano che di una civiltà ci restano le opere commemorative, i mausolei, le strade, i luoghi di culto: le opere.
Quanto invece resta di Sparta non è che una sassosa e arida collina.