Quello che succede oggi in Libia è già successo in Kosovo. Allora il presidente degli Stati Uniti Clinton disse a D’Alema (che in quel momento sedeva sullo scranno più alto di palazzo Chigi) che comprendeva l’imbarazzo dell’Italia nel caso di un suo coinvolgimento diretto nelle azioni di guerra nei Balcani, ma che in ogni caso l’America aveva bisogno delle basi militari sul territorio italiano. D’Alema rispose che l’Italia non è un paese di serie B e che avrebbe fatto la sua parte fino in fondo. Va detto che il governo D’Alema nacque proprio per rispettare gli impegni Nato e dopo aver messo a disposizione una forza composta da 50 aerei terminò il suo mandato con l’autorizzazione all’eventuale partecipazione dell’Italia alla formazione di un corpo di invasione. Anche oggi in Libia l’Italia è stata chiamata a un intervento diretto in uno scenario di guerra posto entro i tracciati di un paese praticamente confinante. L’Italia aderisce con un governo spezzato in due e incapace di avere un’idea univoca sulla questione; aderisce a meno di un anno dal defilé romano di Gheddafi, blandito da una pletora di politici, imprenditori e starlette e da un Presidente del Consiglio “birichino” incapace di frenare la propria libido anche di fronte alla mano del dittatore libico; aderisce nell’assurda convinzione di poter sostenere contemporaneamente due guerre (per chi se ne fosse dimenticato c’è già l’Afghanistan); aderisce senza calcolare i rischi di essere geograficamente in prima linea e quindi facilmente esposto a ritorsioni di natura militare e ai pericoli di quelle che da più parti vengono definite come “bombe umanitarie”. Esattamente un mese fa Berlusconi, chiamato a esprimere un parere sull’evoluzione della crisi libica, rispose: “Non voglio disturbare Gheddafi”. Oggi apprendiamo che nelle personali regole di diplomazia internazionale messe in pratica dal premier, sparare un missile è più educato che fare una telefonata.
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