Magazine Diario personale

Diventare pontefici

Da Margherita

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Oggi non ho combinato granché. Mi sono limitata a leggere due articoli che auspicabilmente dovrebbero tornarmi utili in fase di stesura della tesi.
Il primo era opera di un tizio che pareva convinto di poter elaborare delle considerazioni attendibili a partire da quattro giorni di osservazione partecipante in una scuola superiore di 500 studenti e un numero imprecisato di interviste che, a giudicare dagli stralci riportati nel testo, dovevano essersi svolte secondo la dinamica del "ti suggerisco la risposta/ti dico come la penso sulla tal questione prima di chiederlo a te/ti metto le parole in bocca".
Naturalmente si trattava di un articolo molto gradevole da leggere, con tanto di descrizioni paesaggistiche lunghe almeno un decimo del testo.
Il secondo era scarno, pulito e diretto, ricalcante una struttura standard che ho imparato a seguire durante la magistrale. Tale struttura mi ha permesso di consultare solo le sezioni utili per la mia ricerca. Mi sono soffermata per qualche minuto sull'output di una regressione, cerchiando dei coefficienti che hanno stimolato la mia immaginazione.
Naturalmente si trattava di un articolo molto sgradevole da leggere, oltremodo ripetitivo, come è lecito aspettarsi.

La mia tesi di triennale è piena di descrizioni paesaggistiche. Non sembra neanche una vera tesi, sotto certi punti di vista. Durante la magistrale, ho cominciato a vergognarmene,
(i) perché essa manca di una vera e propria sezione metodologica,
(ii) perché l'autoetnografia mi è stata presentata svariate volte come oltremodo problematica,
(iii) perché ero scesa così in profondità da mettere in bibliografia un manuale di giardinaggio, citato all'interno di una riflessione in cui applicavo la tripartizione del processo di costruzione sociale di Berger e Luckmann alle aiuole pubbliche come spazi svuotati di fertilità e senso.
La mia tesi di triennale contiene considerazioni sul modo in cui, nel corso di vent'anni di vita, ho visto mutare il panorama dalla finestra del salotto della casa di Vicenza, mano a mano che venivano costruiti nuovi edifici.
Di questo mi sono vergognata, in particolar modo.

In questi giorni mi sto domandando come procedere, quali scelte stilistiche fare nella stesura imminente. Devo essere rapida. Non posso permettermi di cambiare idea e riscrivere capitoli interi.
Gli stralci delle mie interviste sono densi. A Trento mi è stato imposto di scrivere paper contenenti citazioni molti brevi, di dissezionare il dissezionabile, ridurre tutto all'osso, ma in questo caso non credo che lo farò. Gli articoli di quel tipo sono quelli che mi fanno dubitare sia della qualità del processo di raccolta delle interviste stesse, sia dell'umiltà e della disponibilità all'ascolto, all'apertura e alla trasformazione di chi le ha analizzate e interpretate.
Questo però non risolve il problema. Evitare di appiattirmi sulle modalità "scorza gradevole/contenuto dubbio" o "scorza sgradevole/contenuto aspirante alla scientificità" risulta difficile, soprattutto ora che il mio stile è andato configurandosi in certi modi, in parte a causa di una violenta reazione alla rigidità delle aspettative nei confronti della mia "scrittura accademico", che per definizione pare debba essere noiosa, arida.

Finisco sempre per fare confonti tra ciò che provai e soprattutto ciò che appresi nel ricevere feedback sullo stile dei miei lavori di matrice qualitativa a Padova e a Trento. Non credo che dimenticherò mai la rabbia che provai nel vedermi riconsegnare, durante il primo anno di magistrale, un paper contenente una metafora sulla quale avevo rimuginato per ore, onde renderla il più possibile adatta a descrivere le diverse sfacettature del concetto di cui mi stavo occupando, ma anche sintetica, all'osso, perché questa era la regola. La frase contenente la mia metafora era stata cancellata con un segno di penna rossa, accanto al quale era stato posto il commento "si può tagliare".
Il mio relatore di tesi triennale, invece, era solito ripetermi che davo troppe cose per scontate, e che dovevo cercare di scrivere tenendo a mente un pubblico composto anche da non specialisti.
Un paper e una tesi sono, ovviamente, molto diversi, e sarebbe ingenuo fingere che il primo non sia condizionato da forti vincoli di brevità. Ciononostante, in questi anni di esperienza con la ricerca empirica, sono andata sviluppando un incredibile insofferenza nei confronti della limitatezza qualitativa e quantitativa dei formati legittimi della comunicazione scientifica, almeno nel mio campo. O forse, non sono tanto i formati, ma il modo in cui li ho visti esemplificati dai tanti lavori di ricerca che ho incontrato e di cui ho letto.

Fino a qualche tempo fa non avrei saputo che farmene dei coefficienti di una regressione. Oggi mi sono resa conto di aver cerchiato alcuni di quelli presenti in una delle tabelle dell'articolo che ho citato sopra alla luce del fatto che essi mi permettevano, almeno fino ad un certo punto, di ignorare l'interpretazione data dall'autore. Potevo farmi un'idea prima di tornare al testo e marchiare le considerazioni utili, che come sempre in questi casi erano ripetitive e stringate.
Questo non è possibile nella maggior parte degli articoli più coerenti con il tipo di ricerca che preferisco fare io. Quando ci sono interviste in ballo, finisco quasi sempre per detestare il modo in cui gli stralci riportati, in trasparenza, mostrano la pochezza delle domande che sono state poste, così come la scarsa cura del setting dell'interazione con l'intervistato.

Ogni volta mi chiedo come è possibile che siano in così pochi ad accorgersene, a tollerarlo. Fare interviste costruite male, senza profondo rispetto nei confronti degli intervistati, si traduce invariabilmente in interazioni difficoltose per tutte le parti coinvolte. Immagino che solo i più saccenti e sicuri di sé tra i ricercatori sociali possano ignorare l'imbarazzo e il senso di inadeguatezza che assale quando ci si rende conto di aver fatto una mossa sbagliata, o di aver perso l'equilibrio necessario a sostenere lo svolgersi dell'intervista. Queste non sono cose che vengono insegnate a lezione, quando gli studenti vengono preparati ad andare nel mondo reale a parlare con qualcuno.
Io ho avuto la fortuna di conoscere un docente che mi ha indirizzata diversamente, ma è stato un caso particolare.

Qualche mese fa mi capitò di rivedere il mio vecchio relatore, che era di passaggio a Trento per una conferenza. Colsi l'occasione per sottoporgli alcuni dubbi emersi durante le settimane in cui intervistai una decina studenti di un istituto agrario della zona. Dopo aver ribadito alcuni concetti che mi erano noti dal lavoro sulla tesi di triennale, finimmo a parlare del modo in cui le parole, in alcune circostante, falliscono, ci tradiscono, e di come il corpo, la postura e lo sguardo siano invece centrali nel mantenimento del tanto fondamentale equilibrio che permette lo svolgersi di un'interazione realmente aperta e orientata all'ascolto, soprattutto nei casi in cui essa è dolorosa per chi si trova a condividere la propria esperienza, per chi la accoglie o per entrambi.

Nel prendere atto, per l'ennesima volta, della marginalità di questo approccio alle interviste come tecnica di ricerca sociale, il mio vecchio relatore usò per la prima la parola "outsider" per descrivermi, per includermi, dopo che tante volte avevo percepito l'amarezza nella sua voce, quando l'aveva usata per sé.
Di lì a poco gli raccontai di come la rigidità dello stile che mi era stato imposto a Trento e della limitatezza degli stimoli non strettamente metodologici, ma di contenuto, registrata durante la magistrale mi avesse spinta a leggere narrativa e a scrivere con nuova foga, per reazione, per disperazione.

Credo che potrei scrivere una tesi intera sullo svolgersi di una delle tante interviste di questi ultimi mesi, la più dolorosa, quella al termine della quale non sapevo come andarmene, come ripagare il ragazzo che mi aveva raccontato con tale fiducia della propria vita e di quella della sua famiglia. Per questo mesi fa avevo ventilato alla mia attuale relatrice l'ipotesi di virare su un lavoro metodologico, anche se poi diversi tipi di pressioni mi hanno spinta a tornare sulla strada maestra e ad abbandonare quella più rischiosa, più audace.

La mia umiltà sta nel dichiarare che terminerò la magistrale con un lavoro il più possibile trasparente. Ma so per certo che, se me ne fosse data l'occasione, potrei scendere molto più in profondità, perché la mia forza sta nel desiderio di conciliare il lavoro che sto autonomamente portando avanti sulla scrittura, il corpo e la loro sovrapposizione, con la ricerca empirica d'impianto sociologico.

In verità so che non ho nulla di cui vergognarmi del mio lavoro di tesi di triennale e che, anzi, so trattarsi di un testo a suo modo peculiare, in cui l'apertura al racconto si è fatta fondamenta per alcune domande alle quali non trovai risposta nella vasta letteratura consultata all'epoca. Il mio timore è che nulla di significativo troverà posto nella tesi che sto elaborando ora, perché procedendo entro questa limitatezza, entro questo regime disciplinante a tal punto da spingere all'inconsapevole autodisciplinamento, non avrò lo spazio per accorgermi di ciò che quelle interviste potrebbero comunicarmi, in circostanze più favorevoli.

Prima di salutarmi per tornare alla conferenza, il mio vecchio relatore mi disse una cosa profondamente vera, della quale poi ridemmo entrambi, anche se con una certa amarezza, in virtù del nostro comune status di outsider e di persone propense allo sfoggio di battute blasfeme.
Mi disse, "Dobbiamo diventare pontefici. Dei costruttori di ponti".

Un discorso del genere vale indubbiamente nell'ambito circoscritto della ricerca sociologica, con le sue ridicole frammentazioni interne e le trincee che la marchiano, ma credo sia vero, almeno per me, anche in molti altri contesti.
La fatica enorme sta proprio nella costruzione di ponti, quando il punto partenza è uno scenario di separazione, diffidenza o ostilità. Quando si è stati outsider così tante volte da aver imparato a vivere in equilibrio, sempre a rischio di precipitare nel vuoto, come un funambolo.

Vorrei che i miei scritti - tutti - fossero ponti. Vorrei che su quei ponti fosse concessa la danza. Vorrei che la danza fosse la premessa.
Vorrei che queste frasi, trasportate in ambito accademico, conservassero lo stesso spirito che hanno qui.
Vorrei essere presa davvero sul serio quando mi infilo nelle profondità della terra e me ne esco poi sporchissima, provata, mutata, e con un nuovo file del dittafono digitale.
Vorrei non essere stata una delle poche persone a cui le interviste sono state spiegate attraverso la metafora della danza.
Vorrei aver cominciato a danzare prima. A questo modo.

Vorrei danzare su quei ponti con chi è lontano o sparito nel nulla, perché là non c'è separazione, diffidenza, ostilità. Là ci sono storie. Là è facile.

(immagine: The Ballerina Project)


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