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Sono più di sessanta i film che compaiono nella filmografia di Sergio Corbucci, regista che ha attraversato generi e decenni con risultati alterni com'è praticamente inevitabile per chi vanta un curriculum tanto nutrito. E' fuor di dubbio che almeno il contributo di Corbucci al genere western sia da considerarsi rimarchevole non fosse altro che per pellicole come questa o come Il grande Silenzio. Siamo già nell'epoca avanzata del western, in anni dove la sua visione classica e palesemente orientata alle ragioni dell'uomo bianco e dell'eroe è definitivamente sorpassata. Siamo un passo oltre anche il revisionismo del genere, oltre l'epica e oltre il mito. Siamo nell'epoca del lerciume, dell'avidità, della violenza e del fango. Django è un film sporco fino al midollo già dalla sequenza d'apertura nella quale il protagonista interpretato da un giovane Franco Nero cammina con difficoltà in mezzo al fango, trascinandosi dietro una cassa da morto lercia, sotto la pioggia battente in caduta da un cielo plumbeo che sembra dirla lunga sul futuro della vicenda.
Lo Spaghetti-Western, riabilitazioni postume a parte, è spesso stato considerato una branca minore e povera del genere, ancor più lo sono state queste sue derive sporche e violente se paragonate alle opere di Leone per esempio. In termini relativi non mi sento di discostarmi troppo da questo giudizio, le emozioni, le sequenze epiche, la soddisfazione di cui può riempirti una Trilogia del dollaro qui non le trovi, siamo in un campo di gioco leggermente diverso. In senso assoluto film come Django, presi di per sè, hanno molto da regalare alla storia del genere. Crudeltà viste raramente anche in narrazioni potenzialmente violente come quelle western, scene e situazioni divenute culto grazie anche a successive rivisitazioni e una visione del vecchio west probabilmente più coerente con quello che è stato nella realtà.
La cittadina in cui si svolge gran parte della vicenda è coperta dal fango, e se è vero il detto che il sole bacia i belli qui il sole latita totalmente. Lo stesso Django, potenzialmente un bell'uomo, uno di quelli destinati al ruolo dell'eroe, è imbruttito da una coltre di lordura dalla quale emergono solo due splendidi occhi azzurri; la sua esistenza è irrimediabilmente compromessa da un lutto che ne segna l'animo.
Alcuni elementi rimangono quelli universali del western, il pistolero infallibile, il prepotente che si macchia di ogni sopruso nei confronti dei più deboli, il razzismo (qui verso i messicani e non verso i soliti pellerossa, sostituzione frequente nello spaghetti), la difesa del più debole anche se occasionale e dettata da interesse personale.
La differenza la fanno il sangue, le montagne di cadaveri, le crudeltà inflitte indifferentemente a uomini e donne, i pestaggi a sangue e alcune scelte registiche indovinate come la sequenza della rissa nel saloon. Da ricordare anche il tema portante del film e le musiche di Luis Bacalov. In questo caso forse le singole parti sono più grandi della loro somma, tutta una serie di caratteristiche rendono questo film un piccolo cult, ben al di sopra di quanto la storia in sè avrebbe potuto fare. Nero è poco espressivo come altre leggende del genere, i caratteristi hanno invece tutte le facce giuste, dal messicano Hugo (José Bodalo) allo spietato Maggiore Jackson (Eduardo Fajardo).
Revisionismo o meno, in fin dei conti il posto che Django occupa nell'epopea del west se l'è ampiamente meritato.
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