so, «Alexandre Dumas was a nigger».
Un western di tre ore con un cowboy negro (e il termine si sdogana: lo si ripete più di 60 volte): è l’ultimo film di Quentin Tarantino, “Django Unchained“, che uscirà il 17 gennaio 2013.
Un film elegante, ricco di citazioni, e non solo agli spaghetti western (già dal titolo: si rifà al “Django” di Sergio Corbucci del 1966 con Franco Nero): sgarrupati zoom sui volti (soprattutto nella prima parte. Trarantino poi li abbandona, quindi, senza ragione apparente, li riprende, dunque smette nuovamente…), musiche morriconiane (e un pezzo in italiano di Elisa), la partecipazione di Franco Nero (che recita per metà in italiano e a cui questo Django spiega come si sillaba il suo nome e che “la D è muta”), di Tom Savini e di David Carradine, steppa, cespugli rotolanti, saloon, paesini, cattivi che sputano o che hanno una benda sull’occhio. Tra le citazioni- satira vi sono “Via col Vento“, “Scarface” “L’Ispettore Callaghan”, “Kill Bill” e “Pulp Fiction“… Sono a volte solo accennate, mai stranianti, neppure quando – durante la mattanza – parte il rap di Tupac.
È un blaxploitation con un finale tarantiniano da sangue a litri e lo stesso regista (ingrassatissimo) come sempre in una parte minore (è uno dei tre mercanti di schiavi imbecilli).
Il protagonista, Django, lo schiavo liberato da un tedesco (che come tale non si attiene alle usanze americane e non riconosce la schiavitù), è interpretato da Jamie Foxx. La parte del leone la fa Christoph Waltz, il cacciatore di taglie tedesco King Schultz, un personaggio sagace, elegante, ironico, colto e affascinante (Django è al contrario monoespressivo e tutto d’un pezzo, assai meno simpatico), oltre che ricco di idee ed ideali (anche in negativo: per lui infatti non è un problema ammazzare gli uomini su cui è stata emessa una taglia, anche in presenza dei figli).
Tarantino, nel western, inserisce poi la Saga dei Nibelunghi, perché Django, novello Gunther, vuole salvare sua moglie, che lui, ignorante, chiama Broomhilda, ma il cui nome vero è ovviamente Brumilde, interpretata da Kerry Washington. Ella è, come nella saga, insidiata da un drago, Samuel L. Jackson, il settantaseienne Stephen, maggiordomo di Candyland, la fattoria dello schiavista Leonardo DiCaprio. Schultz sarà il suo Sigfrido.
Gli altri due pezzi grossi del film sono per l’appunto Jackson, intenso, spaventoso, servile, ma dignitoso, il tipico negro che diventa più realista del re, ovvero che – di fronte a un padrone (DiCaprio, fascinoso e con un perfetto accento del Missisippi) disposto ad accettare che un nero, Django, sia uomo libero e venga trattato come tale – lo rimprovera perché “non possiamo far dormire un negro nella Casa Grande”. O che si oppone a che Broomhilda sia liberata dal suo luogo di punizione.
Il film di Tarantino è molto composto. Al di là della sparatoria finale, che si conclude con i muri sporchi di sangue e una camera a piombo dall’alto sui presenti, per mostrarci tutti i corpi morti attorno a Django, citando la lotta tra Beatrix Kiddo con gli 88 folli di O-Ren Ishii in “Kill Bill“, di sangue ce n’è poco. La violenza per lo più è evocata (si parla di evirazioni e altre torture), o resta fuori campo (sia quando gli schiavi sono squartati dai cani, frustati o sono loro cavati gli occhi). Anche sui corpi dei vari ricercati uccisi da Schultz la regia non indugia.
Ottime come sempre le scene di interni (la lotta tra mandinghi in soggiorno, la cena con il continuo alternarsi tra la sala da pranzo e la cucina, con Stephen che fa avanti e indietro), meno quelle all’aria aperta (come la seconda liberazione di Django).
La caratteristica più amabile di “Django Unchained” però è l’ironia, che raggiunge l’apice quando i due sono prevedibilmente presi di mira dal Ku-Klux-Klan, i cui componenti sono insoddisfatti dei sacchi che devono tenere sul volto e si mettono a litigare. Molto comico è anche il lessico forbito con cui il dottor Schultz si esprime, spesso non venendo neppure compreso dai suoi interlocutori sudisti (ignoranti). (Razzisti e ignoranti, mentre lui, colto, razzista non è?).
Si arriva quindi alla riflessione sul razzismo, visto da diverse ottiche.
Schultz è il punto di vista a noi più accessibile: per lui il colore non conta e Django è come lui. I neri sono come lui. Poi c’è Calvin Candie (DiCaprio), innamorato della Francia (ma non parla francese. È un sudista ignorante) con una quasi moglie di colore, che cena a tavola con l’avvocato (bianco), la camerierina (nera), la non moglie (nera), l’ospite (bianco) e Django (nero). Che prima rimprovera quasi amorevolmente il suo lottatore mandingo fuggiasco D’Artagnan, ma poi lo fa sbranare dai cani, che non se la prende se Django è impertinente con lui e che con il suo cameriere Stephen ha un rapporto quasi da nipote e zio, ma che, arrabbiato, rivela quel che pensa: che i neri siano biologicamente inferiori ai bianchi e che Django, che si dà tante arie, non è diverso. I negri sono inferiori perché il loro cervello è formato diversamente ed è naturalmente portato al servilismo.
Come si diceva, poi, c’è la visione del drago, Stephen, Samul L. Jackson. Lo anticipa Django parlando con Schultz “solo i sorveglianti sono peggio dei negrieri”. Django lo sa, così come ne è a conoscenza chiunque sappia qualcosa di storia americana. Nelle tenute, alcuni negri facevano ciò che nei campi di concentramento facevano i kapò: controllavano gli altri, li comandavano e li punivano. Erano i peggiori nemici di chi era come loro. Si erano venduti alla causa del nemico. Ed erano più rigidi del nemico stesso, come presi da una sorta di sindrome di Stoccolma. Questo fa Stephen.
È infatti lui a smascherare Django, è lui a rifiutare le aperture di Candie. È lui a mettere tutti al loro posto, è lui a umiliare ripetutamente Broomhilda. Più realista del re. È difficile accettare il suo razzismo, anche se la diffidenza – anche il disprezzo – dei neri per Django è comprensibile: tutti i neri che lo incontrano lo guardano non con invidia, ma con riprovazione. Come può – sembrano chiedersi – quel negro andare a cavallo con i bianchi? Segno che il razzismo era largamente condiviso, che alla fine gli stessi schiavi non osavano neppure pensare di essere come i bianchi. Al più, sognavano di fuggire ed essere liberi. Per vivere probabilmente nascosti, ma non uguali.
Infine c’è il razzismo di Django. Il nostro eroe sembra non farsi toccare il cuore dalla condizione degli schiavi attorno a lui. Lascia sbranare il mandingo, rimprovera l’uomo che lo fissa, chiama carboncini i suoi simili. Forse disprezza chi continua ad accettare la condizione di schiavo, forse condivide il pensiero dei padroni bianchi più di quanto non voglia dare a vedere. C’è da dire, ed è Django a farlo rilevare, che il mondo è certamente diviso in negri e bianchi, ma anche in poveri e ricchi, e tra poveri e negri poco cambia: anche i poveri bianchi hanno un padrone, come Django fa rilevare al tirapiedi di monsieur Candie, o come Big Daddy nella sua tenuta suggerisce alla sua schiava (di trattare Django non come un bianco, ma come quel bianco un po’ ritardato – un po’ un bianco di serie B…).
Written by Silvia Tozzi