Vecchio cortile della Langa
Stava seduto sul gradino che dava in cortile e alle sue spalle sentiva le strida del legno piallato e gli schiocchi delle assi buttate una sull’altra.
Teneva la mano fasciata nel fazzoletto appeso al collo e fumava il toscano. Ogni tanto sputava alle galline, che andavano in giro a raspare tra l’erba coperta di segatura. La mano gli faceva, adesso, un male d’inferno e ci sentiva il sangue pulsare.
Chiamò il garzone.
Il ragazzo spense la pialla e battè per terra i piedi, che aveva coperti di trucioli.
-Perdio! scatta, quando ti chiamo, bestia che non sei altro.-
Il ragazzo s’avvicinò, sbattendosi i panni impolverati.
-Va’ in cantina e prendi una bottiglia di quelle marcate San Bovo. Stanno nella scansia in alto, a destra. Capito?-
Il ragazzo fece cenno di sì.
-Allora ripeti, che con te uno è mica mai sicuro.-
-San Bovo. Scansia in alto a destra.-
-E prendi anche un bicchiere. Bisogna che ti dica tutto, perché tu, da solo, sai soltanto trovarti la bocca con la forchetta. In quello mica sbagli.- l’uomo disse, acido, sbuffando il fumo denso e odoroso del sigaro. -Fila! Che aspetti? Boia d’un mondo, che razza d’addormentato!- gli mugugnò dietro, mentre il ragazzo s’avviava attraverso la corte ingombra di legni.
Il cortile cuoceva, nel sole ardente d’agosto, e gatti dormivano al fresco, tra le cataste di assi e i ciuffi d’erba, dove il cortile cedeva al gerbido della riva. Nel greto calcinato del torrente c’era soltanto immondizia e una traccia di fango crepato dall’arsura.
“Mai visto un secco cosi!” pensava l’uomo, osservando il cielo d’un abbacinante candore.
Il ragazzo tornò con la bottiglia, rasentando il muro per cogliere quel filo d’ombra che dava lo spiovente del tetto. Posò la bottiglia per terra, sul gradino, di fianco all’uomo. Aveva piantato nel tappo il cavaturaccioli, ma non l’aveva stappata. Non voleva che il padrone gli saltasse in testa, come l’ultima volta, e l’accusasse d’averne assaggiato.
L’uomo guardò la bottiglia e poi lui.
-Dirti animale è fare un’offesa alle bestie!- gli disse, sporgendo in avanti la mano bendata. -Lo vedi come sono conciato? Con cosa vuoi che la stappi? Con questo!- imprecò, facendosi segno in mezzo alle gambe.
-Una volta dite così, una volta cosà. Si sa mai come fare.- brontolò il ragazzo, tirando fuori il tappo con delicatezza e sboccando la bottiglia nella segatura.
-Bada che il bicchiere lo voglio ben pulito. D’un vino così si deve vedere il colore.-
Il ragazzo tornò col bicchiere sciacquato e lui si versò il vino, contento che spumeggiasse un momento. Levò il bicchiere a guardare il colore rubino, poi lo portò alle labbra e gustò il vino frizzare contro il palato, morbido e secco.
Schioccò la lingua sospirando soddisfatto e si asciugò i baffi nella manica della camicia.
-Niente da dire! Quelli di San Bovo ci sanno fare con l’uva.- disse. -Tu cosa aspetti? Torna al lavoro, mangiapane a tradimento! Ti pago mica per stare qui a bocca aperta come uno scemo.-
-Per quel che mi date…-
-Per quel che mi servi, vuoi dire. Sono io che ci rimetto. E poi non rispondere, che lo sai come sono, e se mi salta la mosca al naso non ci studio ne uno né due. Ti sbatto fuori a calci nel culo e vediamo poi chi altro ti prende. Fila, t’ho detto!- l’uomo raccolse da terra una scheggia di legno e la tirò alle spalle del ragazzo che stava tornando al suo lavoro. -Boia d’un mondo, non mi fossi parente…-
Il fragoroso lamento della pialla riprese.
“Questi giovani d’oggi! Si sentono tutti monarca e invece non sanno fare un’o con l’imbuto. Alla sua età io spaccavo il culo ai passeri, altro che balle! Quello lì, invece, dorme da in piedi e ha ancora bisogno che qualcuno glielo scrolli dopo aver pisciato. Che tempi!”
L’uomo vuotò il bicchiere, poi tornò a riempirlo e bevve di nuovo.
Ci voleva! Con tutto il sangue che aveva perso si sentiva davvero spompato. Buon vino fa buon sangue, pensava, e non c’era medicina migliore di quel dolcetto di San Bovo. Sfregò il fiammifero sul gradino di pietra e riaccese il mozzicone di sigaro.
“Bastarda la fretta!” pensò. Poi scrollò le spalle.
“Poteva andar peggio. Un dito non è poi la fine del mondo.” si disse. Conosceva altri che stavano peggio, come Gildo, che le dita le aveva ancora tutte ma la mano gli era come seccata e non poteva più suonare l’armonica sui balli a palchetto, come faceva una volta. “Sì, però lui è sempre stato svagato e glielo dicevano tutti che presto o tardi gli sarebbe accaduto qualcosa. Sul lavoro bisogna avere la testa attaccata alle spalle, altrimenti la disgrazia si chiama.
In tanti anni mi sono mai fatto di più che qualche taglietto, e guarda oggi cosa doveva capitare, con tutto il lavoro che c’è da fare… Maledetta la fretta!
Be’, è andata così e stare a bestemmiare non serve. Però giran le palle lo stesso!”
-Porco mondo, vieni qui tu! Vammene a prendere un’altra.- disse, asciugandosi il sudore dalla fronte.
Ancora non capiva come avesse fatto a non vedere quel nodo. Il pezzo gli era saltato via dalle mani e lui aveva sentito l’urto quasi gentile, ma gelido, dell’acciaio. S’era guardato e un dito mancava. Aveva visto il taglio imperlarsi di gocce come punte di spillo e aveva preso a sprizzare il sangue sui trucioli.
Allora s’era tenuto stretto il polso ed era corso da Poldo, attraverso il paese, segnando la contrada di sangue.
Bice era sbiancata. S’era fatta da parte e l’aveva fatto entrare nella cucina.
“Mi dispiace che sporco.” le aveva detto, mentre lei chiamava il marito.
Poldo era arrivato che s’abbottonava i calzoni e cristonava che nemmeno al cesso si può mai stare in pace. Gli aveva legato un laccio di cuoio intorno al braccio, mentre Bice gli versava un gotto di grappa.
“Bevilo, che adesso ti dovrò fare male.” gli aveva detto Poldo, prendendo un coltello dalla credenza e passandolo sopra la fiamma. Poi s’era avvicinato e aveva preso a trafficargli la carne.
Di Poldo aveva fiducia. Avevano fatto insieme la Grecia e l’Albania e s’erano ritrovati in Africa. Poldo ci sapeva fare. Gliene aveva visti rattoppare di quelli che erano stati sventrati come maiali, altro che scemenze come la sua. Poldo era in gamba, c’era mai stato niente che gli facesse impressione, e tutti dicevano che se avesse studiato avrebbe fatto una gran strada, con quella testa da ministro che aveva.
“Male?” gli aveva chiesto, mentre la cucina si riempiva di una puzza acre di carne bruciata.
“Dai, dai… sbrigati solo, che ho una fretta del diavolo!” aveva detto lui, a denti stretti.
“Tanto per oggi hai finito.” aveva ghignato lui, mentre finiva di rammendarlo e gli fasciava la mano. “Servito! Chissà se adesso mi riuscirà d’andare al gabinetto!”
L’uomo si versò da bere e fischiò al cane, legato alla catena. Quello si drizzò a sedere, davanti alla cuccia, e fece andare la coda ramazzando la segatura che c’era sparsa per terra. Drizzava le orecchie, attento, e uggiolava al padrone, vedendolo trafficare dentro il taschino del panciotto e lanciargli qualcosa.
-Prendi!-
Il cane si avvicinò a fiutare, poi si voltò e tornò dentro la cuccia. Sporse il muso al richiamo dell’uomo e tese il collo fuori dell’uscio.
-Cosa studi? Prendilo!-
Il cane stava acquattato e vibrante, le orecchie basse.
-Coglione d’un cane!- disse l’uomo e s’alzò e con un calcio spedì il dito in mezzo alle erbacce.
Poi rientrò in bottega a vedere cosa stava combinando quel lavativo.
*foto tratta dal web