Domande di un Moscone a un Filosofo, a proposito della nuova scrittura Web

Da Bruno Corino @CorinoBruno

 Domande di un Moscone a un Filosofo,
a proposito della nuova scrittura Web.
- Operetta amorale di Bruno Corino e il Moscone -

Svolazzando da un sito per aspiranti scrittori a un Forum letterario.

il Moscone, un autore dilettante che si era formato leggendo i classici dell’Ottocento e del primo Novecento, si accorse che il modo di scrivere degli amanti delle belle lettere si era ormai trasformato.

Non era tanto questione di mode frivole o di gusti personali ma era avvenuta un’autentica mutazione antropologica.

Nei classici che aveva letto e (alcuni) studiato con passione, l’intreccio della trama era strutturato in modo d’esprimere il potenziale dell’opera gradualmente, lentamente, con grandi trovate nel montaggio scenico, per arrivare a culminare in scene sublimi e memorabili tipo “La leggenda del Santo Inquisitore” di Dostoevskij.

Romanzi che richiedevano anni di tempo ai loro compositori.

Ora osservava, nei siti e nei Forum dediti alla scrittura, il proliferare di racconti e narrazioni varie a un ritmo spaventoso: migliaia di elaborati ogni giorno invadevano la Rete!

Lo stesso valeva per le poesie.

Giacomo Leopardi impiegò l’ultimo anno della sua vita, per comporre solo due poesie, “La ginestra” e “Il tramonto della luna”, limandole e correggendole un’infinità di volte.

E ora i poeti Web erano capaci di produrre come operai alla catena di montaggio, centinaia di migliaia di versi al giorno.

Com’era possibile?

Spaesato, confuso e alienato il Moscone si rivolse a un suo amico che faceva il consulente filosofico, il Filosofo per l’appunto.

Gli spiegò il suo disorientamento e domandò:

- Tu come la vedi?

Confesso che questo dubbio del Moscone mi ha dato molto da riflettere…

Leggere una pagina virtuale non è come leggere una pagina stampata.

La pagina virtuale, come direbbe Marc Augé, è un non-luogo, è una pagina non identitaria; nella pagina stampata restano incisi i nostri segni (la sottolineatura, la nota a margine, il punto esclamativo, interrogativo, la macchia di caffè, l’odore di fumo delle sigarette, una macchia di smalto o di rossetto, la polvere del tempo, la traccia di zampetta del mio gatto, ecc.), segni che si stratificano nel tempo, che invecchiano insieme al lettore, ecco perché a volte è difficile separarci da un libro che ci accompagna da anni nella vita, e che in qualche modo ormai ne è parte, come l’arredo della nostra casa.

La pagina virtuale non ha odori, non ha macchie, non ha cancellature, essa è sempre uguale a se stessa, ogni volta che l’apro è come se l’aprissi per la prima volta, anche se l’ho aperta migliaia e migliaia di altre volte. Questa pagina non assorbirà mai gli odori o i tratti della mia identità o della mai storia, essa rimarrà sempre là in attesa del prossimo viandante.

È dunque una pagina dove il lettore non sosta, non pianta la sua tenda o la sua casa, non poggia i suoi oggetti o la sua memoria, è una pagina di passaggio. Questa, in fondo, è la surmodernité, e chi allestisce questa pagina sa che il suo lettore non è un ospite ma un viandante, un nomade, non è uno che sosterà su quella pagina ore e ore, giorni e giorni, a volte intere settimane, come capita alla pagina stampata, ma è uno che permarrà una frazione di tempo, cinque, sei otto minuti, per poi recarsi altrove, e sa anche che per allettare il suo viandante a trascorrere un po’ di tempo nel suo non-luogo l’autore gli deve offrire qualche distrazione, una musica di sottofondo, immagini, titoli a caratteri cubitali, un qualcosa cioè che lo induca a restare un po’ di più, oltre almeno una frazione di secondo giusto il tempo d’aprire e chiudere immediatamente la pagina, come fa il lettore quando si vede davanti una “mappazza” di parole.

Intendiamoci, la colpa (si fa per dire) non è né di chi scrive né di chi legge: è il mezzo o il medium che lo impone. E non crediate che chi scrive per la pagina virtuale sia un superficiale e sia invece profondo chi scrive per una pagina stampata! Se andiamo indietro nel tempo, accade la stessa cosa che è accaduta quando un’opera cominciò a circolare con caratteri a stampa anziché manoscritta. Il libro divenne un oggetto di largo consumo, la “lingua” s’abbassò, si semplificò, quei, “conciosiacosaché”, “nondimanco”, “acciocché”, ecc., di colpo invecchiarono, sembravano avverbi d’altri tempi; la sintassi si fece più asciutta, più sobria, non più tutte quelle lunghe circonlocuzioni per esprimere un semplice concetto. Avvenne una rivoluzione lenta nel mondo delle lettere, ma vi fu uno smottamento che chi viveva a quei tempi non sempre riuscì a percepire.

Allora mi sono chiesto: cosa vuol dire essere assolutamente moderni? Vuol dire scrivere nella consapevolezza che stai scrivendo una pagina virtuale, cioè non scrivere più, come finora hai scritto, pensando che la tua sarà una pagina stampata. Essere moderni allora vuol dire adeguare la tua scrittura al medium? Scrivere, adunque, una pagina che saprai già in anticipo che non sarà giammai un luogo identitario, una pagina capace d’offrire al viandante stimoli diversi (visivi, auditivi, concettuali, emotivi)?

Chi scrive, insomma, devi sapere che il suo viandante virtuale è un recettore di stimoli di natura molteplice, per cui quanto più stimoli riesce la tua pagina virtuale a offrirgli tanto più potrai dire d’essere riuscito a scrivere una buona pagina.

In sostanza, Moscone, essere moderni vuol dire “semplificare” la via al lettore, spianargliela, eliminare tutti quegli intoppi che distrattamente possano farlo cascare? La modernità sta in questo o nel fatto che adesso anch’io, anche tu o lui o lei disponiamo di un medium attraverso cui possiamo far giungere la nostra voce a una quantità inimmaginabili di persone senza passare attraverso la “tirannia” delle case editrici? Attenzione però: questo medium è nelle mani di chiunque, e chiunque può scrivere il suo messaggio. Il rischio qual è? Quello di generare un totale appiattimento. Tutti vogliamo avere più lettori, ma per avere più lettori bisogna semplificare loro la vita, scrivere cose “belle” ma generiche, scrivere cose accattivanti, usare uno stile brioso, leggero, soffice come un bagnoschiuma, insomma bisogna sempre più stendere la linea in senso orizzontale, sino al punto che tra me e il Moscone non si nota più alcuna differenza, eliminiamo a poco a poco tutte le nostre differenze, il nostro specifico stile, diventeremo tutti uguali sino a che un giorno scriveremo tutti la stessa poesia o lo stesso racconto, diremo tutti le stesse cose con lo stesso linguaggio. L’eccesso di modernità può avere anche le sembianze di quest’incubo. Ecco perché, e concludo, dico che per essere moderni non devo essere io ad adattarmi al medium, ma devo saper adattare il medium al mio stile.

- Caro Filosofo, secondo me si pone un altro problema a questo punto: non c’è il rischio che l’autore, lo scrittore Web, venga espropriato della propria identità?

Stiamo assistendo a sistematiche violazioni dei diritti d’autori, a plagi su scala industriale, a scambi d’identità e a una generale confusione e scambi di personalità.

Ad esempio, autori famosi come Coelho, regalano in Rete certi loro romanzi gratis, solo per il gusto d’esserci – nel Web – e d’essere riconosciuti.

In sintesi: se il Medium è più potente dell’autore, non rischia di rubare la sua identità?

Caro Moscone, la pagina virtuale è un nonluogo perché è impossibile esternare la propria "identità".

Il processo di espropriazione della propria identità era già stato avviato con il libro stampato.

La pagina virtuale ha accelerato tale processo portandolo alle sue estreme conseguenze;

nel manoscritto, per farti un esempio, tu potevi rilevare le tracce della presenza fisica (storica) dell'autore (cancellature, sottolineature, impronte, odori, umori, ecc.), quelle stesse che sono poi passate al lettore quando legge nel tempo un libro stampato;

l'identità di cui parlo è questa: quella presenza storico-fisica che s'è incisa sulla carta, non parlo di un'identità anagrafica, astratta...

l'unico modo che un autore aveva per non alienare la propria presenza storico-fisica era lo "stile", che diveniva il suo modo d'essere, il suo modo d'esprimersi, l'ultimo lembo a cui aggrappare l'identità, quello che ti permette di riconoscere una pagina di Proust o di Joyce.

Con la pagina virtuale questo processo di disincarnazione è portato, come dicevo, alle estreme conseguenze: è vero tra me e te c'è feedback, ma io e te siamo esseri disincarnati, siamo o abitiamo in questi istanti in un nonluogo, interagiamo finché siamo in un ambito virtuale.

Tu dici "esternando la propria identità": io non ti esterno la mia identità, perché finché vivo sul web non ho identità, io esterno parole, concetti, idee, ma non riesco a esternare il luogo in cui vivo e scrivo.

Allora mi domandavo, scrivendo in un nonluogo, in un luogo privo d'identificazione storica, come posso oggi "preservare" la mia identità? Era questo il dubbio che Mauro m'aveva sollevato con la sua obiezione; mi sono chiesto, appunto, cosa vuol dire essere "moderni" o vivere nella surmodernité... cosa vuol dire vivere nel mondo della "finzione" o dell'apparenza? e quindi mi chiedevo cosa vuol dire mettere in scena la finzione e come posso metterla in scena? quale stile, quale linguaggio usare? uno stile alto, medio, basso?

Un italiano medio, alto, prosaico, aulico? E' qui che mi domando: qual è quello che esprime meglio il mio essere? quell'italiano che ho appreso sui banchi di scuola, sui libri di lettura, o in televisione, al cinema, sui fumetti, ascoltando canzoni, leggendo poesie? usando immagini, filmati?

- Un’ultima domanda, Filosofo: alla fine della fiera, noi amanti delle belle lettere, dobbiamo stare dentro o andarcene fuori, da questo Medium?

In sintesi dico: su questo Web o siamo fuori e stiamo dentro.

Se stiamo dentro il lettore della Rete, come hai ben intuito, è pervertito dallo stesso Medium: vuole musica, capoversi pirotecnici, immagini, sceneggiature filmiche e montaggio, montaggio... ah, il montaggio è il perno della tecnica Web, un montaggio assoluto che divora intreccio e fabula.

Sul web il lettore non vuole rompersi le palle nemmeno un attimo: immagini rutilanti, musiche, sangue di flames a fiotti, qualche istigazione al porno subliminale e qualche ammicco di rimorchio...

Non diciamoci palle: è questo che la maggioranza vuole, omologandosi di brutto come ben dici.

Per Dostoevskj a veniva dopo b e c e d, per il Moscone la sequenza giusta è a z g h l a s !

E il paradosso è che lo stesso Moscone è un ottocentista in lettura!

Questo dialogo virtuale tra un Filosofo e un Moscone è una sorte di operetta amorale dei tempi moderni: non stiamo predicando ma ISPIRANDO chi legge e chi scriverà in futuro.

Annunciamo la venuta di un nuovo mondo e di un nuovo modo di far poesia&letteratura! E così sia…


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