Nel recensire Domani nella battaglia pensa a me di Javier Marías (1994) mi trovo alle prese con il problema di non aver ancora capito se questo romanzo mi sia piaciuto o meno. L'ho comprato mesi fa, colpita dal titolo, senza seguire alcun consiglio, anzi, senza aver mai sentito parlare dell'autore: avevo un filo di orgoglio di troppo (ditemi che capita anche a voi?!) per il sospetto di aver scovato da sola un libro che avrebbe lasciato il segno. Dopo un paio di capitoli, però, sono stata assalita da una pesantezza che mi ha fatto seriamente temere di dovermi appellare al 3° diritto del lettore di Pennac, quello di non finire un libro; di qui il mio appello su Facebook ad incoraggiamenti, perché, in fondo, avevo la sensazione che, non terminandolo, mi sarei persa qualcosa.
Quel qualcosa, in effetti, c'era, il problema è che ho dovuto pazientare tanto e fare un tale sforzo nel seguire la narrazione da non rendermi ancora conto di cosa essa mi abbia lasciato.
La trama di Domani nella battaglia pensa a me è quasi più breve del suo titolo: Victor sta per andare a letto con Marta Téllez quando la donna, improvvisamente, muore fra le sue braccia. Victor non sa cosa fare: cerca di contattare il marito di lei, in viaggio a Londra per lavoro, ma teme le conseguenze, eppure abbandonare l'appartamento significa lasciare da solo anche il piccolo Eugenio, addormentato nella camera vicina. Victor si risolve a sparire, ma tiene sotto osservazione la casa e i giornali per essere certo che Marta ed Eugenio siano stati trovati e, al funerale, stabilisce un contatto con i familiari della donna. Come stregato dalla presenza-non presenza di Marta nella propria vita e in quella dei suoi cari, si avvicina a loro senza rivelare la sua identità, rendendosi conto dei mille volti che può assumere la realtà a seconda della prospettiva da cui la si guarda, di come un minimo gesto possa cambiare le esistenze di molte persone e di quanto grande sia la dose di inganno nella vita di ciascuno.
Domani nella battaglia pensa a me (il titolo proviene da una ricorrente citazione di un passo del Riccardo III di Shakespeare) è una riflessione in forma narrativa sul fatto che "tutti viviamo, in maniera parziale ma permanente, subendo l'inganno oppure praticandolo, raccontando soltanto una parte, nascondendo un'altra parte e mai le stesse parti alle diverse persone che ci circondano", come ha detto l'autore in occasione della consegna del premio Rómulo Gallegos (Caracas, 2 giugno 1995). La vicenda di Victor, o, per meglio dire, quella di Marta, ci è presentata attraverso un meccanismo prismatico di intrecci di prospettive: il pensiero di Victor stesso, mescolato al ricordo dei pochi momenti passati insieme, i gesti inconsapevoli di Eugenio, il rancore del vecchio Téllez, il tormento del marito. E a ciò che accade nel tempo del racconto si sommano flashback, sogni, fantasie e ricordi di film, intere sequenze, parole ed espressioni che ritornano nell'esperienza del protagonista (ora evocati come memorie, ora come frutto delle sue ipotesi), secondo un procedimento che ricorda, anche nella sintassi, spesso contorta, il flusso di coscienza. E il romanzo è davvero una traduzione perfetta di questa tecnica, anche se essa appare forse troppo spesso come artificio che soffoca la trama, impedendo che le sue potenzialità si attuino pienamente.
Ammetto che, senza il discorso di Caracas, posto in appendice, avrei faticato a dare una formulazione definita del nucleo del romanzo, perché esso è pieno di spunti interessanti, di riflessioni che spiccano con il loro elevato valore esistenziale e l'autore riesce spesso a renderle straordinariamente affini al sentire del lettore per rimandi alle esperienze condivise (gesti che compiamo comunemente, sensazioni che associamo ai comportamenti, ipotesi sulle reazioni dei nostri interlocutori ecc.), ma tutto questo è appesantito da una prosa farraginosa e da episodi che sembrano non avere alcuna attinenza con la storia, come il lungo incontro con l'Unico, che unisce le sue elucubrazioni a quelle di Victor senza che la sua presenza illumini in alcun modo la vicenda. O forse è un mio limite. Non è la prima volta che mi scontro con sintassi anticonvenzionali, anzi, ho già avuto modo di esprimere la mia ammirazione per quella altrettanto complessa di Saramago, solo che col romanzo di Marías ho avuto la sensazione di un eccesso.
Dalla metà del libro in poi il mio giudizio è nettamente cambiato rispetto ai primi capitoli e, tutto sommato, sono contenta di non aver gettato la spugna, però è cambiato anche il ritmo del racconto, i cui brani iniziavano a combaciare, il sistema dei personaggi si è arricchito e ha preso una sua strutturazione e la curiosità di conoscere il finale è aumentata progressivamente. Con il rapporto fra Victor e Téllez, Luisa e Deán (padre, sorella e marito di Martha), iniziamo a capire cosa sia quella rete di inganni e verità parziali e cosa Victor e l'autore intendano parlando dell'incanto, l' hounting, prodotto dal fantasma di Marta, l'influenza che ella ha lasciato come 'non più viva' in coloro che lo sono ancora.
C'è un verbo inglese, to haunt, c'è un verbo francese, hanter, molto imparentati e piuttosto intraducibili, che denotano ciò che i fantasmi fanno con i luoghi e con le persone che frequentano o spiano o rivisitano; [...] a quel che sembra entrambi provengono da altri verbi dell'anglosassone e del francese antico che significavano dimorare, abitare, sistemarsi permanentemente. Forse il legame poteva limitarsi a questo, a una specie di incantamento o haunting, che a ben vedere non è altro che la condanna del ricordo, del fatto che gli eventi e le persone ritornino e appaiano indefinitamente e non cessino del tutto e non ci abbandonino mai del tutto, e a partire da un certo momento dimorino o abitino nella nostra testa, da svegli o in sogno, si stabiliscano lì in mancanza di luoghi più confortevoli, dibattendosi contro la propria dissoluzione e volendo incarnarsi nell'unica cosa che rimane loro per conservare il vigore e la frequentazione, la ripetizione o il riverbero infinito di ciò che una volta fecero o ci ciò che ebbe luogo un giorno: infinito, ma ogni volta più stanco e tenue. Io mi ero trasformato in quel filo.
Questo è uno dei passi che, da soli, salvano il libro, facendo sentire tutta la soddisfazione di averlo scelto, ma, per arrivare ad essi, si attraversano momenti molto meno accattivanti. Insomma, mi sembra quasi di aver letto due libri in uno e l'aver apprezzato molto la seconda parte non mi permette tuttavia di riabilitare completamente la prima e, con essa, l'intero romanzo.
Voi l'avete letto? Cosa ne pensate?
C.M.