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Domenico Infante Sento la neve cadere

Creato il 02 marzo 2014 da Frmagni
Domenico Infante Sento la neve cadere
Scritto da: Angelo Di Liberto

Domenico Infante, Sento la neve cadere (Scrittura & Scritture, 2014, € 11,50, pp. 127). Destini minimi. Figure come paesaggi. Realtà indifferenti all’orrore. Spettri di esseri animati, una volta felici, ormai non più riconoscibili. E la semplicità come scenografia rupestre. Siamo a Petralia Sottana, un paesino arroccato in provincia di Palermo, negli anni compresi tra il 1922 e il dopoguerra, un agglomerato di case e contadini.
Sarebbero destinati all’oblio. Ma come affermava Pessoa: “Un breve scorcio di campagna, al di là di un muro di periferia, mi libera più completamente di quanto un intero viaggio non libererebbe una persona”.
Se c’è un percorso che questa compagine umana decide d’intraprendere è nel luogo più intimo della propria anima, dov’è fragore. Ciascuno a suo modo sceglie un destino. Ciascuno a suo modo subisce un destino.
Esistono giusti che soffrono e crudelmente, testimonia il libro di Giobbe. E Domenico Infante, in “Sento la neve cadere”, atrofizza la natura dell’esistenza nella sua disposizione allo scetticismo. Neutralizza le convinzioni, vanifica i dogmatismi.
Gli uomini e le donne di questo romanzo vivono esistenze semplici, scandite da ritmi naturali che nulla hanno a che fare con la follia. Ma con essa faranno i conti.
Il coro di voci che si leva da quelle pagine ha un’identità ordinaria, genuina, spesso scontata, ma mai priva d’umanità. Anche quando si tratta di dimenticare se stessi per un principio assurdo di dominio sul più debole.
Certe immagini di libri sono più significative di tanta gente che incrocia il sentiero delle nostre vite. Le sentiamo vicine, alitarci addosso tutta la propria sorte. Perché è dalle immagini elementari che prende vita l’infinito.
Sgretolando la convinzione che l’identità è lì, immutabile, refrattaria ai cambiamenti, quella piccola società contadina si trova ad affrontare il titano bellico e prima ancora il conflitto enigmatico delle origini. Ne risulterà profondamente mutata.
Ma davvero l’immagine che abbiamo di noi corrisponde a ciò da cui originiamo?
“Ho vissuto da ignorante, senza conoscere il tuo nome e spesso il mio, perfino; senza conoscere le lettere per scriverlo, contento di essere ignorante. Quanto è costato a mio figlio sapere che cosa e chi siamo. Quanto è costata a me questa sua curiosità”.
Ce lo chiediamo spesso. Le forze che in noi si contrappongono, ombre e consapevolezze, sono motivo di squilibrio. Siamo minimi a nostra volta, incapaci di scegliere, sul confine dell’abisso.
L’autore ci conduce a quel limite sciogliendo la parola in accadimenti continui. Ci disvela i significati nascosti delle cose utilizzando una lingua quotidiana, che non perfeziona. Al contrario detronizza l’esemplarità della forma, la rende duttile alla sensibilità del lettore.
Ci rinfranca lasciandoci riflettere su ciò che realmente importa: quel nucleo oscuro da cui tutto si è originato e che implica la necessità del male. Forse il non conoscere la propria genesi, l’orma primigenia che reca impressi i caratteri costitutivi di ogni individuo può generare mostri. Chi siamo è il patto più solenne che l’uomo possa fare col suo simile. Una promessa di senso e direzione. Una partita con quel destino che abbiamo ripudiato, oscillando tra simboli infamanti e marginalità assurte a fondamenta di una società che rischia la privazione dell’anima.
Chi siamo è quanto siamo stati disposti a rischiare per essere noi stessi.
Poi vengono i giorni della pace. Fatti di silenzi e speranza. Le ceneri di ciò ch’eravamo si disperdono e nuove sagome si ricompongo. Sottili, come un giunco.
In Sicilia c’è un vecchio proverbio che dice: “Càlati junco ca passa la china”. È un movimento naturale, minimo, quasi impercettibile. Come la neve quando cade.


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