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Opere come questa, che certo non rappresentano un'esperienza estetica di primaria importanza, testimoniano però una prassi teatrale in voga nel primo Ottocento. L'ascoltatore occasionale o appassionato può decidere di godersi lo spettacolo per com'è o giocare a riconoscere tracce di altri titoli tra Mozart, la scuola napoletana (da Paisiello al predominante genio camaleontico di Rossini) e le più disparate esperienze melodrammatiche, Bellini compreso. Presa come un gioco e con molta cautela, quest'ultima strada, diciamo "enigmistica", dà più soddisfazioni di quel che si potrebbe pensare: Gaetano Donizetti sembra dialogare in modo attivo - e trasgressivo - con la prassi della composizione operistica e con i suoi autori. Anche la consapevolezza di questo legame con le tecniche drammaturgiche e con la tradizione, nel cui cuore pulsante il compositore bergamasco mira a trovare un suo posto, dimostra una confidenza e una comunanza enciclopedica con il suo pubblico, che si suppone e si vuole partecipe dei giochi che si svolgono in scena. Don Gregorio, in definitiva, non è un capolavoro in sé, anche perché sostituisce alla compattezza dell'azione scenica una serie di snodi terribilmente convezionali e prevedibili, da ogni punto di vista sul piano musicale e su quello dei temi e dei fronti di battaglia culturale, primi fra tutti la potenza del genio femminile e le sviolinate sull'imperativo etico dell'amore (significativo, in questo senso, il giovane Pippetto che traduce in latino abusando del verbo amo, quale unico equivalente possibile di qulasiasi predicato italiano).
La ripresa di questi titoli da parte della Dynamic - a un prezzo di listino davvero troppo alto - ha, dunque, un valore storico importante e lo sforzo va premiato per quello che è. A un tale spolverio, d'altra parte, spesso ma non sempre corrisponde anche una buona qualità artistica. In questo caso, il regista Roberto Recchia e il direttore Stefano Montanari - alla testa delll'orchestra del teatro Donizetti di Bergamo - portano avanti uno spettacolo compatto, sia pure, soprattutto sul piano scenico, qualche forzatura. Il cast vede l'ormai onnipresente Paolo Bordogna nel rôle-titre, con buone capacità di gestire linea vocale e ruoto attoriale. Accanto a lui, il don Giulio di Guido Valerio ha buona tecnica, ma una voce claudicante nei passaggi di registro (in specie verso il basso); nei panni di Enrico, Giorgio Trucco è tenore donizettiano per antonomasia, voce acuta e spiegata, leggera ed elegiaca. Per parte sua, la Gilda di Elizaveta Martirosyan è elastica e a suo agio in una parte che richiede carattere e passaggi veloci, senza troppa tenuta di suono, ma convince nella bella aria finale, Quel tuo sorriso, o padre, prova di bravura e manifesto di un'estetica ormai vincente. Accettabili nell'insistita tendenza alla macchietta il Pipetto di Livio Scarpellini e la megera Leonarda di Alessandra Fratelli, mentre partecipe e attivo è il coro diretto da Fabio Tartari.
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