Il nostro adorato Joseph Gordon Levitt ha un’anima tamarra, e chi l’avrebbe mai detto? Dopo aver raggiunto il successo con indiefilm come 500 giorni insieme e Hesher è stato qui e col roboante Inception di Christopher Nolan per la sua prima opera alla regia (sia pure per una produzione indipendente) sceglie la storia di un personaggio “medio”, animale discotecaro quasi in stile italienisch: il protagonista Jon è chiamato dagli amici Don proprio per questo attitude al rimorchio sfrenato. Ma non solo, Jon è anche porno-dipendente, preferisce il rapporto con le piattaforme video di internet piuttosto che con le donne che colleziona. Un bel giorno incontra la bellissima e pure lei tamarra fino alla morte Scarlett Johansson, che con un atteggiamento da “brava ragazza, ma forse no” alias gattamorta lo conquista.
Levitt sentiva l’urgenza di questo film così tanto da mettersi dietro la macchina da presa, che usa in modo abbastanza impersonale e asettico (solo il montaggio della scena iniziale sembrava avere qualche spunto), senza troppo dispiego di forze. Una storia che oggettivamente non regge neanche i 90 minuti: il ritmo sembra buono all’inizio, ma dopo la terza volta che rivediamo le stesse scene con minimi cambiamenti (sabato sera in discoteca/domenica mattina chiesa e pranzo dai genitori/lunedì palestra e preghiere d’ammenda tra i pesi e i tapis roulant) si inizia a pensare che il film non sia poi così ispirato, e che anzi, le idee in ballo fossero un po’ poche fin dall’inizio.
Lui, Levitt, se la cava bene, non altrettanto la Johansson che rimane un po’ ambigua nel suo personaggio sia a causa della limitata sceneggiatura sia a causa, forse, di una non eccessiva capacità nel dirigerla. La Moore fa il suo compito, ma si vede poco e poco rimane del suo personaggio, che pure così “strabiliantemente” cambia il corso del film.
La morale (molto annacquata) è la stessa contro la mercificazione dei corpi e la svalutazione delle menti nel mondo dell’immagine della perfezione televisiva e pubblicitaria. Ma non si arriva davvero al sodo, lo si evita prendendo la strada di un finale banalotto, del quale tuttavia Joseph sembra andare molto fiero, visto che sbandiera a tutti di aver riscoperto la bellezza dell’happy ending, senza ricordare che neanche due anni fa Tom Hanks se ne uscì nelle sale con un film in tutto simile a questo, almeno nell’impianto (Larry Crowne, si chiamava) ma dove, al posto del tamarro, c’era lui nelle vesti di uno sfigato universitario ultrafuoricorso. Solo che Tom Hanks l’ha fatto dopo almeno un venticinque anni buoni da attore, quel film, mentre Levitt, vuole scavalcare i tempi, bruciare le tappe, e si ritrova tra le mani un mediocre prodotto prematuro, che può presentare a tutti i Sundance che vuole ma che non si scrolla di dosso la sua patina da nuova hollywood.
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