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Neanche il tempo di smettere di lamentarsi del suo strano e sciupato lavoro su Doctor Who, che Steven Moffat ritorna a inizio anno con la terza serie, a lungo annunciata e ancora più a lungo attesa, di Sherlock, personaggio molto amato nel suo essere la più fresca e interessante incarnazione del famoso detective, che un po’ si dava anche per disperso dopo il successo internazionale raggiunto da Benedict Cumberbatch e Martin Freeman – che, si sa come funziona di solito, una volta toccati da Hollywood un po’ di fatica a tornare in patria probabilmente c’è sempre.
E se già nella scorsa stagione si notava una maggior moffattazione nella complessità delle trame, nella rapidità e nei salti mortali narrativi, la terza tornata di episodi appare ancora più tortuosa: vivere nella testa di Moffat non deve essere semplice, e infatti personaggi, concetti, argomenti e colpi di scena vengono sparati e assemblati con una tortuosità sempre più accesa – quello che capita alla struttura di Sherlockè in fondo lo stesso che ha rivoluzionato (in negativo) Doctor Who, ma qui la necessità di dare maggior continuity alle tre puntate standard e ampliare lo sguardo sulla globalità dei personaggi a discapito delle tipiche indagini funziona egregiamente (non ci sono riempitivi da far sceneggiare ad altri), con punte di inattesa e potentissima meraviglia nonostante alcune lacune tipiche dello showrunner inglese (la poca consistenza della minaccia nemica, l’eccessivo bombardamento di immagini che porta anche confusione).
Su tutto risalta The Sign of Three, episodio centrale nel quale Moffat e Gatiss danno ampio respiro al rapporto tra Sherlock e Watson trasformando di fatto la serie in qualcosa d’altro, molto più di semplice giallo ma anche molto più che commedia: nella ricchezza dei dialoghi e nella confezione ultra ritmata, nella costruzione a incastro e nella drammatica giocosità quasi ci si commuove per la profondità che viene toccata, in fondo mai prima d’ora si era assistito a un simile scambio d’intensità tra i due personaggi, sempre così vicini eppure distanti a causa degli omicidi, delle investigazioni e dell’ironia con cui avvolgere ogni cosa.
E stessa cosa si può dire per His Last Vow, puntata intricatissima e di enorme respiro dove, nonostante si ritorni a un più esemplare giallo con tanto di super nemico (il comunque poco sfruttato e poco evil Magnussen), spicca sempre più non solo il rapporto tra i due investigatori, ma ciò che li spinge a muoversi e ciò che li lega in maniera così essenziale – il dialogo rivelatore con cui Sherlock spiega a Watson semplicemente perché è forse quanto di meglio abbia scritto Moffat negli ultimi anni, l’uso delle parole e la sofferta energia che trasmettono valgono da sole la visione e rappresentano al meglio quello che la serie è diventata (e quello che probabilmente vorrebbe essere Doctor Who).
Non manca chiaramente l’aspetto più divertito e divertente, per questo basterebbero soltanto le varie spiegazioni per la morte di Sherlock nel finale della seconda stagione, ricostruzioni che vanno dall’assurdo all’improbabile eppure tutte simpaticamente valide nella concezione complessa e impossibile della serie. Non che il cliffhanger con cui si chiude l’ultima puntata abbia meno da dire in quanto a goliardia e certa presa in giro di se stessi, resta da vedere quanto bisognerà aspettare per una quarta stagione o se verrà mai effettivamente realizzata.
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