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(Don’t) think pink

Da Femminileplurale

(Don’t) think pink

Si chiama “La scienza è un gioco da ragazze” la campagna dell’Unione europea che punta a risolvere un problema serio quale la sotto-rappresentanza delle donne nelle carriere scientifiche. Il trend in questo campo è molto negativo («le donne costituiscono più della metà degli studenti europei e il 45% dei dottorati di ricerca, ma la percentuale scende a un terzo quando si arriva alle carriere scientifiche») e naturalmente per cambiarlo è necessario puntare alle generazioni più giovani, cioè le ragazze che oggi hanno tra i 13 e i 18 anni e che perciò stanno per orientarsi alla scelta universitaria. L’obiettivo è arrivare a un milione di donne scienziate in più entro otto anni, il 2020. Un obiettivo importante, giusto e necessario.

Sgombrato il campo dall’idea che le donne siano per natura meno portate per la scienza (l’aveva sostenuto addirittura il rettore di Harvard qualche anno fa), è palese che si tratta di un problema culturale. Le donne non sono portate per la scienza nel senso che non sono portate alla scienza. Pesa su di noi un ritardo culturale che ci vuole empatiche, comprensive, collaborative oppure – che è l’altra faccia della medaglia – sexy, opportuniste, approfittatrici. Tradotto a una prospettiva professionale, le donne sono più portate per il rosa della scuola materna e del sexy shop piuttosto che per il blu notte della fisica o della biologia.

Allora la domanda è: perché per promuovere una campagna importante come “Women in Research and Innovation” non si possono utilizzare immagini che spezzino questo schema invece che riproporlo con love, rosa e cuoricini?

(Don’t) think pink

o, peggio, con video come questo, in cui ragazze truccate, in minigonna e infilate su tacchi a spillo entrano in laboratorio per sostituire, con sinuose mosse da cubiste, smalti e rossetti alle provette?

Provo a immaginare di essere io, oggi, una adolescente. Avendo meno di 18 anni, sarei nata e cresciuta nell’Italia berlusconiana. E accendendo la tv – invece dell’Almanacco del giorno dopo ed Enzo Biagi – avrei visto le veline, le letterine, le meteorine, le olgettine. Ruby e la D’Addario. La Minetti. La Carfagna. La gatta nera. Non che tutto questo mi si sia dovuto per forza riversare nelle vene, ma nemmeno si può dire che abbia sostenuto la mia percezione di me stessa come di una persona che trascende la valutazione estetico-commerciale del proprio corpo e stia, perciò, in un rapporto di libertà rispetto ad essa. Le immagini che sono state offerte a me, giovane donna, potenziale scienziata, in tutto l’arco della mia vita come candidate all’identificazione rimandano sistematicamente a una dimensione ipersessualizzata del corpo femminile al servizio dell’immaginario maschile (con grande danno anche per la reputazione dell’immaginario maschile, ma questa è un’altra storia). Nessuna sorpresa se a 8 anni l’ambizione di diventare presidente della Repubblica non presenti differenze statisticamente rilevanti tra maschi e femmine mentre via via, avvicinandosi ai 18, il divario delle ambizioni lasci indietro le femmine e si determini a favore dei maschi. Gli uomini devono credere in sé stessi. Le donne devono credere in loro. Date a queste bambine ambizioselle qualche anno e lo capiranno, che per loro le massime cariche sono escluse per principio.

Questa è, a grandi linee, l’atmosfera culturale di cui siamo imbevuti (da quanto tempo?) e che diventa sempre più urgente spazzarsi via di dosso. Soprattutto, si deve assolutamente resistere alla tentazione di combattere questa battaglia sul piano economico, come invece una parte sempre più ampia dei media main stream sta facendo, anche imbeccata, purtroppo, dalla forza mediatica di Se non ora quando, che a mio parere su questo argomento sta commettendo un grave errore strategico. La battaglia è tutta da combattere sul piano dei diritti: non perché economicamente convenga, ma perché è politicamente giusto che una donna abbia pari dignità sociale rispetto a un uomo.

Peccato che nel frattempo i diritti siano passati di moda – e, guarda caso, proprio per un discorso economico secondo il quale meno diritti uguale meno crisi (discorso che sarà assai difficile contrastare sulla base di una presunta “superiorità” femminile nel lavoro e nella “leadership rosa” che, oltre a essere irritante, è un’idea anche falsa e controproducente). Ma intanto un lavoro culturale può e deve essere portato avanti: specie se sei l’Unione europea e stai lavorando per far passare un messaggio così importante alle ragazze tra i 13 e i 18 anni. E alle ragazze che negli ultimi vent’anni hanno disertato le facoltà scientifiche anche per via del discorso che la società ha riprodotto all’infinito sul loro corpo e sul loro ruolo, tu che fai? proponi esattamente lo stesso corpo, esattamente lo stesso ruolo.

Nel momento stesso in cui si agisce per provare a superare un problema, si dimostra di esserne ancora schiavi.


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