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Donne-falegname e recupero di materiali usati. Quattro laureati con la passione per il lavoro manuale e l’arredo su misura

Creato il 17 novembre 2013 da Elisadibattista @laureartigiani

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Trasformano materiali di recupero per farne credenze, librerie, banconi ma anche allestimenti per parco giochi e complementi d’arredo unici e su misura. Partono da doghe, parquet dismessi, tapparelle usate e molti altri materiali di cui le persone si sono disfate, per riportarli a nuovi utilizzi. Il loro laboratorio, che si trova a Milano, si chiama Controprogetto e i fondatori sono Valeria Cifarelli, 35enne laureata in Architettura; Alessia Zema, 35enne laureata in Design Industriale a Milano; Davide Rampanelli, 34 anni e anche lui una laurea in Disegno Industriale, e Matteo Prodenziati, 30enne con una laurea in Giurisprudenza. Caratteristiche particolari: passione per il lavoro manuale.

Come nasce Controprogetto?

(Valeria): «Ad Alessia e me non interessava un percorso classico post laurea, volevamo esplorare un approccio diverso al mondo del lavoro e avere uno spazio in cui poter sperimentare. Davide, intanto, dal suo Erasmus a Weimar era rimasto folgorato da un approccio al design più fattivo e meno concettuale. Così nel 2003 abbiamo deciso di occupare uno spazio alla Stecca degli Artigiani per poter sperimentare e lavorare, e abbiamo creato un’associazione che inizialmente comprendeva circa 15 persone, e ci siamo rimasti fino al 2007, finchè la Stecca non è stata abbattuta. La Stecca, spazio gratuito condiviso da artigiani, bricoleur, autoproduttori, rappresentava una risorsa infinita di materiali e piena di artigiani, con cui abbiamo avviato un laboratorio di allestimenti e sperimentazioni manuali. In seguito, nel 2009, abbiamo spostato Controprogetto, ormai definito come laboratorio di prodotti artigianali, in via Tertulliano 70».

Ti ricordi il vostro primo progetto?

«È stato un parco giochi per il Kosovo: per realizzarlo abbiamo contattato aziende che ci han regalato materiali e abbiamo realizzato nei locali della Stecca gli allestimenti, che poi abbiamo smontato e spedito in Kosovo».

 Come avete imparato la parte manuale del vostro lavoro?

«Sul campo. Ogni giorno veniamo in laboratorio, ci mettiamo la tuta da lavoro e costruiamo. Ognuno di noi segue un progetto specifico».

Quali strumenti adoperate?

«Il nostro è un laboratorio molto fornito: abbiamo una troncatrice radiale, una mola, una troncatrice da

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ferro, una combinata, alcuni elettroutensili, una levigatrice a nastro, una sega circolare, dei flessibili, un trapano a colonna, degli avvitatori. Insomma, è una vera falegnameria!».

Nel gruppo siete due donne e due uomini. Ci state dicendo che quello del falegname non è un mestiere prettamente maschile?

«Non esiste la galanteria a controprogetto (ride, Ndr.). Io e Alessia siamo uguali a Davide e Matteo, tutti facciamo tutto. A parte quando ci sono pesai esagerati da sollevare sollevare… Spesso ci dividiamo in squadre,  io e Davide insieme e Alessia e Matteo, anche per bilanciare ed equilibrareil lavoro. Io sono una “falegnama”, è un dato di fatto, mi ci vedo bene, e anche se le prime settimane mi facevano male le braccia, ormai sia io che Alessia ci siamo fatte i muscoli».

 Pensi che le vostre lauree vi abbiano portato valore aggiunto nel vostro mestiere?

«Rispetto a un falegname canonico abbiamo un’impostazione progettuale che è un valore aggiunto, e che utilizza anche ad esempio progetti in 3D. Io ad esempio sono anche abilitata come architetto, e penso che quello che possiamo offrire sia un servizio in più e più completo, dal progetto al contatto con i clienti».

 In passato mentre studiavi ti saresti immaginata di diventare “falegnama”?

«Mi vedevo a lavorare nel settore allestimenti, non in uno studio di architettura, ma per gli allestimenti temporanei. Facevo sempre modellini agli esami perché possedevo una buona manualità. Ho fatto una settimana in uno studio architettura dopo laurea, ma quella della Stecca era un’esperienza troppo importante per lasciarla perdere. E poi lavorare in studio non faceva per me, trovavo noioso lavorare al pc per ore. Adesso, con i miei colleghi, dopo giorni di progettazione abbiamo voglia di sporcarci le mani».

Di Controprogetto, oggi, ci vivete?

«Sì, dignitosamente, ma per anni abbiamo guadagnato poco e fatto sacrifici, ma non abbiamo mai chiesto aiuto alle nostre famiglie, che comunque ci hanno appoggiato, ma l’impresa è nata e cresciuta autonomamente e gradualmente, e secondo me questo è il modo giusto per fare impresa in Italia. con costanza e dedizione».

 Come trovate i clienti?

«Di sicuro essere nati alla Stecca degli Artigiani è stato un vantaggio perché per un po’ si è parlato di noi, che eravamo “quelli della Stecca” e il nome girava. Quando ci siamo trasferiti in via Tertulliano c’è stato un salto di qualità nei rapporti professionali perché nel quartiere ci sono studi fotografici, professionisti della comunicazione e della moda. Principalmente lavoriamo su Milano e dintorni, ci è capitato di spedire qualcosa all’estero, di fare workshop di costruzione partecipata, cosa che viene dall’esperienza alla Stecca dove si passava molto tempo a costruire insieme. Facciamo incontri preliminari, ci chiamano cooperative sociali e associazioni che lavorano con enti e poi si crea insieme con materiale di recupero. Tra i nostri progetti, ad esempio, The Hub, un’esperienza fondamentale per avere visibilità e per esprimerci».

 A che punto si trova oggi l’artigianato?

«È una strada da riscoprire e sono molto contenta del ritorno all’artigianato che sta prendendo piede sempre più».

Foto in alto, credits: The Chic Fish


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