“Chi ama questo genere sa che la sua natura, la sua vera essenza, non vive nei cavalli, nei paesaggi brulli, nei saloon fumosi, bensì in un’astratta, indescrivibile filosofia di vita, che si nasconde nella maniera che i personaggi hanno di affrontare il mondo, nello sguardo di uomini e donne dinanzi ai loro ostacoli, nel fatto che non si fanno conoscere per quello che dicono o per come parlano di sé, ma per ciò che fanno e che vive nei segni dei loro volti. (…) Se il Far West ci riporta ad un momento storico ben preciso, il western è anche uno stato mentale.” Questo è quanto si scriveva tempo addietro, su queste pagine, sul fatto che nonostante la collocazione “storica”, la vera portata di un western si trova nella secchezza narrativa ed un certa “asciuttezza” nella definizione dei personaggi. Tanto è vero che nello stesso articolo, da cui è stato estrapolato questo breve paragrafo, si indentificavano come pseudo-western, tra gli altri, alcuni film di John Carpenter, dei fratelli Coen e il capolavoro di Hopper, Easy rider. Ma per quanto sia altrettanto vero il fatto che il western, quello puro, è un universo in cui si può inserire pressoché ogni filone o genere, ci son pur sempre delle regole da seguire, delle mura portanti con cui bisogna far attenzione. Nell’ultimo numero di Dust, riguardante Soldato blu di Ralph Nelson, si concludeva teorizzando sulla capacità, insita nella figura femminile, di sapersi elevare ad icona, di diventare portatrice del contenuto e il non-espresso di un film. Va detto però, che la scelta di un’ attrice, la cui bellezza è oggettiva quanto prorompente, può risultare in una lama a doppio taglio. L’avvenenza, la sensualità o l’eccessiva “modernità” di un viso femminile può stridere con il contesto polveroso del west cinematografico, soprattutto quando il genere si è mutato, donando talvolta alla donna ruoli da pistolere ed eroine più mascoline (lampanti esempi sono le Bad girls, 1994, di Kaplan e la Sharon Stone del fumettoso Pronti a morire, 1995, di Raimi). Per evitare che la bellezza doni un velo artificioso alla storia o la faccia risultare poco credibile, il regista deve sceglierla con cura, saperla “accogliere”, darle un senso e contestualizzarla narrativamente.
Per la volontà di Nelson di creare una serie di sottili similitudini e parallelismi tra la figura femminile in Soldato blu e la cultura hippy, la Bergen, con il suo volto così pulito e il suo sguardo indagatore, è il perfetto punto d’unione. L’attrice con il suo secondo e ultimo western continua ad avere un rapporto armonioso con il West, interpretando un ruolo che con il precedente Cresta Lee condivide solo il fatto di essere una donna forte e capace. In Stringi i denti e vai! (1975) di Richard Brooks, la Bergen rinuncia ad una smaccata sensualità ma mai alla femminilità, evitando di scimmiottare i comportamenti dei suoi due coprotagonisti maschili e quindi riuscendo a tener testa a due presenze leggendarie come Gene Hackman e James Coburn.
Bergen è nata sotto il sole californiano e cresciuta tra le altissime palme che torreggiano sulle lunghe strade immacolate di Beverly Hills. La madre Frances Bergen (nata con il cognome, di origine britannica Westerman, “uomo del west”), è stata una nota modella e soubrette con il nome d’arte di Frances Westcott, sotto la bandiera della notissima e storica agenzia di John Robert Powers, la Powers agency per l’appunto (che tra le altre cose ingaggiò quella che poi sarebbe diventata una first lady al fianco del marito Gerald Ford). Il padre di Candice, Edgar Bergen, era un comico, speaker radiofonico e attore, ma soprattutto ventriloquo, arrivando persino a creare un fumetto comico che girava intorno alle avventure della sua “spalla” intitolato Mortimer and Charlie, nel 1939. I nonni paterni erano immigrati svedesi che giunti negli Stati Uniti anglicizzarono il loro cognome, che in origine era Bergren. La piccola Candice muove i primi passi nel mondo dello spettacolo in tenerissima età comparendo nel programma radiofonico del padre e poi nel 1958, ad undici anni e con il nome di Candy, nel quiz show di Goucho Marx, You bet your life, sempre accanto al padre. Odiando l’etichetta di “sorella di Charlie McCarthy” (il pupazzo del padre) il suo sogno da adolescente era quello di diventare una stilista d’alta moda. Frequenterà la University of Pennsylvania, dove sarà eletta sia Homecoming Queen che Miss Università, ma da cui sarà costretta ad andarsene a causa del mancato impegno nello studio. Riceverà, molti anni più tardi, nel 1992, un dottorato onorario alla Penn. Ironia vuole che il suo debutto sul grande schermo arrivi proprio con il ruolo di una eccentrica studentessa universitaria in Il gruppo (1966) di Sidney Lumet, in cui tra l’altro toccherà l’allora delicato e proibito tema del lesbismo. Il suo secondo film, sempre nel ‘66 è Quelli della San Pablo, immenso capolavoro di Robert Wise, in cui la Bergen si ritroverà a duettare con personaggi della portata di Steve McQueen e Richard Attenborough. Nonostante il film ebbe varie candidature agli Academy Awards, molti critici se la presero con la Bergen definendo, erroneamente, la sua interpretazione come “legnosa”. L’etichetta di “bella ma poco espressiva” le rimarrà affibbiata per svariati anni a venire e non saranno le sue interpretazioni nel francese Vivre pour vivre (1967) di Claude Lelouch , Gioco perverso (1968) di Guy Green, affianco a Michael Caine o L’ultimo avventuriero (1969) di Lewis Gilbert a cambiare le cose. Sarà infatti la doppietta composta da Soldato blu e Conoscenza carnale (1971) di Mike Nichols a mutare la percezione che la critica mainstream aveva della statuaria bionda. Quindi giunti al ’75, anno in cui parteciperà anche al film di Milius Il vento e il leone, la Bergen era riuscita a conquistarsi il rispetto che meritava.
Bite the Bullet, così suona il ben più suggestivo titolo originale, si apre con il cowboy Sam Clayton (Hackman) in procinto di scortare un cavallo da corsa, campione di razza di grandissimo valore, a Tripoli. Il padrone, un ricco imprenditore di nome Parker, attende con ansia il pregiato animale, dato che tra pochi giorni avrà inizio la gara, sponsorizzata dal giornale Western Star. In palio ci sono 2.000 dollari per chi sopravvivrà ai massacranti 1.126 km che si snodando tra catene montuose e ostili deserti. Clayton è costretto a fermarsi lungo la strada quando vede due cavalli lasciati per morti, vicino ad una carovana abbandonata. La cavalla adulta porta i segni di ripetuti maltrattamenti, mentre invece la cavallina è crudelmente attaccata al carro da un filo metallico che le attraversa il naso. Disgusto e rabbia si manifestano sul volto dell’uomo che la libera. Non c’è nulla da fare per la madre. Compiuto il suo dovere, rimette il fucile al suo posto e carica la puledra tra le braccia mettendola per lungo sulla sella. In pochi silenziosi minuti impariamo molto su Sam Clayton, sul suo forte amore per i cavalli e la bassa tolleranza per la crudeltà umana. Anche se la deviazione fatta gli sta costando tempo prezioso, la priorità di Sam è di prendersi cura della puledra. Si ferma ad una fattoria vicina, dove un ragazzo sta mungendo una mucca. “Puoi risparmiare un po’ di latte per un orfano affamato?” chiede al ragazzo, che esegue diligentemente. “Ti piacciono i cavalli?” Il ragazzo annuisce timidamente. “Ne hai uno tuo?” Scuote la testa. “Ne vuoi uno?” Gli occhi del ragazzo si accendono. “Beh, adesso ne hai uno tuo.” Sam spinge la puledra tra le braccia del ragazzo. “Ti debbo qualcosa?” “Sì.” Sam risponde. “Non trattarlo mai male.“
Nel frattempo, i vari partecipanti alla corsa si riuniscono nella cittadina di partenza. Troviamo, tra gli altri: il giocatore ed avventuriero Luke Matthews (Coburn), che sperando nel colpo grosso punta 7-a-1 su se stesso; l’inglese, Sir Harry Norfolk (Ian Bannen), che partecipa per puro gusto sportivo; la giovane testa calda, Carbo (Jan-Michael Vincent) voglioso di farsi un nome; un veterano conosciuto solo come Mister (Ben Johnson) alla ricerca di un ultimo colpo di fortuna prima che cali il sipario; un messicano (Mario Arteaga) che accompagnato da un tremendo mal di denti partecipa nel disperato tentativo di tirar fuori la sua famiglia dalla povertà in cui si trova; e infine Miss Jones (Bergen), una cavallerizza solitaria che sembra avere le carte per affrontare la competizione tutta al maschile ma le cui vere motivazioni sono, in un primo momento, poco chiare. Sam arriva in ritardo all’appuntamento ma con il cavallo di Parker in ottime condizioni e giusto in tempo per scontrarsi con Carbo per aver colpito con violenza e per gioco un mulo. Nella rissa che seguirà Sam rivedrà Matthews, che scopriamo essere un vecchio amico, fin dai tempi in cui parteciparono alla rivoluzione messicana. “Tu non sei Sam Clayton, protettore di animali stupidi, donne in difficoltà e cause perse?“
La mattina seguente inizia la gara, e per i successivi sette giorni, i concorrenti, tra cui parteciperà all’ultimo anche Sam, si dovranno scontrare con la natura ostica, banditi, la sete, la stanchezza, e se stessi. Si forgeranno alleanze ed amicizie, tra chi abbandona per forza o per scelta e chi si spinge fino al fine.
Del grandissimo Richard Brooks, che con questo film conclude il suo rapporto con il genere, avevamo già avuto modo di parlare in occasione del suo capolavoro I professionisti. Brooks, nasce a Philadelphia nel 1912 da genitori ebrei immigrati dalla Russia. Negli anni ’30 si impone come giornalista sportivo e più in là come scrittore di noir, arrivando a pubblicare capisaldi del genere come Odio Implacabile, che poi diventerà una pellicola con Robert Mitchum. Come molti cineasti della sua generazione vivrà sulla pelle l’esperienza della seconda guerra mondiale combattendo in Europa per due anni. Si impone nel cinema nei primissimi anni cinquanta come sceneggiatore per pellicole low budget e “b” movies come Cobra woman e White savage, ma il suo talento non tarderà ad emergere scrivendo e collaborando agli script di film come I gangsters di Robert Siodmak o Forza bruta di Jules Dassin. Saranno proprio la struttura narrativa, la caratterizzazione dei personaggi e i dialoghi secchi ad elevare i film di Brooks ben al di sopra della media. In un’intervista arrivò a dire: “Prima viene la parola poi tutto il resto.” Debutta alla regia nel ’50, e cinque anni più tardi firma il primo dei suoi capolavori Il seme della violenza. Altri film notevoli sono La gatta sul tetto che scotta, I fratelli Karamazov, Il figlio di Giuda e A sangue freddo. I western diretti da Brooks sono tre: il dimenticabile L’ultima caccia (1956), il già menzionato I professionisti (1966) e naturalmente Stringi i denti e vai!.
Tra quest’ultimi due, sia scritti che prodotti oltre che diretti da Brooks, corrono non poche similitudini, in primis il legame tra animale e uomo. Da notare quanto il personaggio di Clayton sembra essere l’evoluzione del Robert Ryan della pellicola precedente, nel suo essere cosi attaccato ai cavalli. Ci sono migliaia di film in cui questi animali sono centrali, di cui una fetta cospicua sono ovviamente western ma pochi arrivano a teorizzare in maniera così profonda sul legame, non solo affettivo, tra padrone e cavallo, ma su quanto sulla sopravvivenza di uno dipende l’altro e vice-versa. Il messaggio centrale del film sembra quasi essere la capacità di misurare il carattere di un uomo dal modo in cui tratta gli animali. Il film è ambientato all’inizio del secolo scorso, quando un cavallo ancora deteneva un enorme valore per il suo proprietario, soprattutto ad ovest, e il suo furto o la sua morte poteva significare la rovina per il proprietario. Guardare l’epicità della gara dispiegarsi è emozionante, ma più volte ci viene mostrato il “pedaggio” che i cavalli devono pagare per soddisfare i bisogni dell’uomo. Al contempo, Brooks confeziona un film profondamente americano in cui si mischiano: minoranze etniche e progresso tecnologico, un amore per i soldi di matrice capitalista e l’ossessione per la stampa, patriottismo e violenza. Come disse Brooks stesso intervistato da Douglass K. Daniel per il libro (vivamente consigliato), Tough as Nails: The Life and Films of Richard Brooks: “Non ci sono buoni e cattivi in questo film. Ci sono solo persone che si comportano in base alla loro natura. Volevo raccontare la loro storia e dire che tutti noi abbiamo la nostra eredità in loro. Loro avevano un codice d’onore e senso etico che non aveva nulla a che fare con il vincere. (…) All’epoca c’era il fare. Ecco cosa era importante e volevo fare un film su questo.”
Hackman, Coburn, in un ruolo da duro dal sorriso facile ormai collaudatissimo, e Bergen , sono eccellenti come sempre, ma una menzione speciale va fatta per l’immenso caratterista, attivo dagli anni trenta, Ben Johnson che con il suo poco più che cameo ruba la scena a tutti. Nonostante Johnson continuerà a lavorare per molti anni ancora, anche in altri western, è difficile non vedere la scena in cui muore silenziosamente davanti al fuoco, come il canto del cigno di un grande-piccolo uomo del West, voluto più volte dallo stesso John Ford. Quanto alla recitazione, interessante venire a sapere del modus operandi del regista. “Agli attori fu dato un trattamento di venti pagine. Spesso dovevano imparare le battute la sera prima. Ok l’ammetto, si fidavano molto di me. Del resto non avevano scelta.”
Eugenio Ercolani
La prossima settimana: Io non credo a nessuno