A 108 anni dalla sua nascita, oggi Google dedica il suo doodle ad Hannah Arendt: voglio parlarne non perché lei sia stata una delle vittime della persecuzione razziale nazista, ma per alcuni contenuti interessanti del suo pensiero.
Le persecuzioni e le pulizie etniche purtroppo continuano ancora oggi nel nostro mondo e ricordare ha senso solo quando serve a non ripetere gli stessi errori, mentre sarebbe perverso crogiolarsi nella memoria se questo dovesse invece servire a distogliere l'attenzione da errori analoghi che si stanno commettendo nel presente per dedicarsi solo a piangere sul sangue già versato.
La realtà è che errori simili sono stati ripetuti e si stanno ancora oggi ripetendo, perché in fondo proprio come pensava la Arendt il male è cosa ordinaria e banale, un comportamento crudele ed inumano che in determinati contesti culturali può essere perpetrato anche da persone assolutamente mediocri ed insignificanti, magari scarsamente critiche, ma non propriamente sadiche o malvagie nel senso stretto dei termini.
Una buona parte della gente infatti non possiede propri principi e/o normative umane ed etiche: non tutti hanno lo spessore emotivo, culturale e personale necessario a contenere un proprio sistema di riferimento interno: la maggior parte degli individui fonda i propri riferimenti nel consenso sociale, accettando come normale e giusto ciò che è approvato e condiviso in un determinato clima culturale.
Il concetto della banalità del male fu sviluppato da Hannah in occasione di un processo, svolto in Israele contro un vecchio gerarca nazista, Adolf Eichmann, che fu rapito dal territorio argentino, dove si era rifugiato, ad opera dei servizi segreti, quindi processato e mandato a morte in Israele.
La cattura di Eichmann avvenne nel 1960, l'esecuzione nel dicembre del 1961.
Hannah Arendt era all'epoca cittadina statunitense, essendosi rifugiata negli Stati Uniti, in fuga dalla Germania nazista e dalle persecuzioni razziali, fin dal 1940: aveva svolto studi filosofici, era una scrittrice e dunque nel corso del processo ne pubblicò i resoconti sul settimanale New Yorker, nel 1963 questi articoli poi furono raccolti e pubblicati sotto il titolo La banalità del male.
L'analisi della vita e delle vicende di Eichmann furono occasione per sviluppare all'interno dello scritto, appunto questo concetto di banalità del male: una persona sostanzialmente priva di rilevanti capacità personali, di cultura e senso critico, priva quindi anche di una reale e profonda convinzione, oltre che della consapevolezza e della profondità di pensiero necessarie per riuscire a misurare le conseguenze e gli effetti reali dei propri agiti, poteva compiere atti criminali solo perché questo era il suo compito ed il suo lavoro ...
Solo perché quello era considerato ordinaria amministrazione nella Germania nazista, tutti lo ritenevano giusto e tali erano gli ordini.
Hannah Arendt era una docente ed una scrittrice ed ha prodotto diverse altre opere, ma questo concetto di banalità del male continua ad essere una tematica di attualità scottante soprattutto in una visione prospettica globale della umanità: chi ad esempio nel ricco occidente, continua a consumare prodotti di aziende e multinazionali che sfruttano il lavoro e la salute dei minori, non rientra forse nel gregge acritico della banalità del male?
Non rimane forse la stupidità e la limitazione di vedute l'unico alibi da accampare per non considerarsi responsabili?
Chi vende armi a coloro che continuano a consumare genocidi ai nostri giorni, protetto in questo crimine dall'equilibrio di forze internazionali che favoriscono determinati stati e/o fazioni, non ricade ancora una volta in questa medesima categoria?
Quando la storia ne farà il processo, cosa si dirà a discolpa? Che questo era normale e così facevano tutti?