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Dopo la caduta

Creato il 13 novembre 2011 da Gadilu

Dopo la caduta

Se si cercano le testimonianze del tempo che fu, si trova che esse sono concordi nel definire quel che è avvenuto un ventennio fa come l’aprirsi di una parentesi nella storia del popolo italiano. Era questa una definizione doppiamente ottimistica: primo, perché supponeva una progressione in quella storia, interrotta o sospesa dagli eventi; secondo, perché la parentesi aperta è fatta per chiudersi, e, se il periodo non deve soffrirne, per chiudersi a breve scadenza. (Salvatore Satta, De profundis)

Forse poi si dirà che oggi, 12 novembre 2011, è stato un giorno storico. Silvio Berlusconi che sale al Quirinale per rassegnare le sue dimissioni, mentre una folla gioiosa e incanaglita sventola bandiere, intona canti e lancia insulti, è un evento che molti di noi, antiberlusconiani da sempre e per sempre, abbiamo aspettato per anni. Eppure, come dice il mio amico Franz Mozzi, del quale spesso ho condiviso opinioni e sentimenti, non riusciamo a essere contenti. Non sventoliamo bandiere, non cantiamo, non lanciamo insulti e ci sembra che la vita post-berlusconiana tanto agognata (e appena cominciata) se ne stia per adesso ancora tutta dentro il cerchio grigio di quella berlusconiana. Alcune note sparse, buttate giù a caldo, per cercare di capire perché.

Prima di tutto, il nodo è forse sempre quello, come ebbi già modo di scrivere [QUI]: toltaci da una insormontabile contraddizione logica la gioia perfetta di non essere stati costretti ad assistere alla sua ascesa, è la modalità della sua discesa che non può alimentare la soddisfazione che ci saremmo immaginati di provare di fronte alla sua effettiva – posto che sia effettiva, soprattutto posto che sia definitiva – caduta. Ci sarebbe stata poi una gioia relativa, ma in ogni caso apprezzabile, derivante dalla semplice constatazione di un fallimento dovuto a due fattori concomitanti: la cognizione generalizzata, da parte dei suoi sostenitori, che avere investito le proprie speranze in un venditore di sogni rivelatisi fin da subito fandonie è stato un grave sbaglio e una scelta della quale occorre assumersi piena responsabilità; la soddisfazione, da parte dei suoi oppositori, di aver contribuito a creare nel Paese un’onda di ribellione non basata soltanto sull’insofferenza e il disgusto verso la sua persona, ma anche sulla concreta e praticabile prospettiva di cambiamento condivisibile da una vera e propria maggioranza di cittadini (a questo proposito mi sembrano surreali le dichiarazioni di Bersani, le ascolto proprio in questo momento in rete, secondo le quali sarebbe stato il Pd a cacciare Berlusconi). Purtroppo nessuna di questi due fattori stanno all’origine di quanto si è venuto creando. L’erosione del consenso non si è manifestata nei termini e nelle proporzioni che ci saremmo aspettati in base al semplice buon senso espresso dalla profezia, rivelatasi dunque sostanzialmente errata, di Indro Montanelli (“gli italiani dovranno provarlo sulla loro pelle…”); la crescita del dissenso non si è mai tradotta in una significativa proposta alternativa. Il fatto che il quarto governo Berlusconi non sia caduto in Parlamento, né in seguito a libere elezioni, è sotto gli occhi di tutti e creerà a mio avviso non poche resistenze sulla via di un autentico superamento di una cultura, quella berlusconiana, che non si è certo affermata per caso e che dispone sicuramente di anticorpi ancora vivissimi (al pari del “mussolinismo”, anche il “berlusconismo” rientra a pieno titolo in quel pessimo volume autobiografico che gli italiani, temo, continueranno a comporre). Difficile dunque dichiararsi pienamente contenti.

Ma c’è un ulteriore elemento di opacità, alla radice di questa gioia mancata, che vorrei qui mettere in luce. Ai margini di questa vicenda sta diventando drammaticamente percepibile l’illusione, coltivata per anni in rapporto al significato stesso del termine “democrazia”, di essere padroni, cioè che il popolo sia in ultima istanza padrone, del proprio destino. E sia pure quel genere certamente non perfetto di padronanza implicato dal diritto di eleggere i propri governanti contribuendo a determinarne le scelte. Rispondendo a una domanda fattagli da Nicola Sessa riguardo alle cause determinanti dell’attuale cambio di governo, il sociologo Luciano Gallino ha detto: “Sicuramente la troika (Fmi, Commissione europea e Bce) ha operato come portavoce del sistema finanziario che da decenni chiede di tagliare le pensioni, facilitare i licenziamenti, privatizzare i beni comuni. Il messaggio è quello dell’ulteriore espansione del capitalismo finanziario in ogni direzione” [FONTE]. Penso non sia difficile immaginare come, a fronte di una simile espansione, avremo la corrispondente contrazione della nostra sfera di sovranità e dunque un attacco diretto al significato dell’attività e della partecipazione politica nei termini sin qui conosciuti. E se pensiamo a quanto sia già improbabile, nel nostro bellissimo e disgraziatissimo Paese, la capacità di saper dar vita a una politica in grado di governare le cose (anziché dimostrarsi sempre completamente in loro balia), i motivi per gioire francamente diventano davvero pochi.  


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