Doppia recensione: Stoner di John Williams

Creato il 22 novembre 2012 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

Recensione di Rocco Fischetti

Perdonami, però perdonami cosa? E tu dici: la vita.
Francesco De Gregori

Quando oggi in Italia si dibatte sul romanzo il più delle volte si coglie un tono febbrile, spasmodico nella discussione generale, quasi che con la propria opinione in merito ci si giochi più di quanto è ufficialmente in palio.
Se da una parte nuovi Nietzsche annunciano la morte del romanzo a un secolo e mezzo dalla morte dell’ultimo dio, sempre di più sono quelli che ne proclamano la resurrezione e vita sulla scorta delle lettere di Jonathan Franzen apostolo al Venerdì di Repubblica, che, nel dettarci la nuova kasherut letteraria, ci proibiscono ogni contatto impuro tra il kindle e Balzac.
In effetti la novità (pubblicitaria?) dell’ultima versione del romanzo americano ha avuto un impatto talmente straordinario con il nostro paese da modificarne il gusto, l’agenda e gli strumenti critici con la stessa inevitabilità con cui negli anni ‘60 il rock di Elvis fissò il canone per i nostri Bobby Solo e Little Tony.
Per parlare di Stoner di John Williams (che sulla copertina della traduzione italiana pubblicata da Fazi viene definito romanzo) proviamo invece a dimenticare il romanzo americano per come lo abbiamo interiorizzato, con le sue pretese al limite infantili di conquistare tutti i territori del risiko umano e la sue ossessioni freudiane per i traumi dei personaggi, e iniziamo col concentrarci sul titolo.
L’inglese, a differenza dell’italiano, conosce l’opportunità di stratificare il significato di una sola parola aprendola a un ventaglio di sfumature virtualmente infinito: Stoner è ovviamente il cognome del protagonista ma può voler dire scalpellino, tagliapietre, pietrista o addirittura lapidatore. Che gusto hanno questi nomi? Non vi sembrano riaffiorare dal fondo dei ricordi, da una di quelle favole dei fratelli Grimm piene di mestieri scomparsi? O da una favola di Perrault? Stoner: Pietrino, Sassolino
William Stoner è un personaggio delle favole e come ogni personaggio delle favole che si rispetti conosce un solo luogo, subisce un unico incantesimo. A prima vista potrebbe passare per un eroe esistenzialista alla Mersault, ma la sua coerenza è archetipica, non reattiva, e allo stesso modo la sua impossibilità di muoversi oltre il raggio di azione di minime ed essenziali prerogative presuppone il rispetto di un codice di causa-effetto di natura magica: qualunque cosa succeda, Stoner si stende dove può a fissare il buio a occhi aperti (come del resto qualunque cosa accada, una principessa sarà destinata a dormire o un pesce condannato a esaudire desideri).
Nel reame di Columbia convivono quindi tre categorie di umani che non corrono il rischio di essere confuse.
Da una parte abbiamo Stoner e i personaggi che nel corso del racconto egli attira a sé con una volontà che coincide con la sua stessa sospensione – alla maniera delle favole che non indagano le intenzioni e in cui è tutto fatale, teleguidato. Questi personaggi sono la moglie Edith, la figlia Grace, l’amante Katherine e con Stoner condividono la medesima fisionomia (sono alti, magri ed esangui) e la medesima psicologia (sono disciplinati, autosufficienti e trattenuti).
Trasfigurati dallo loro deformità fisica, Lomax e Walker sono invece i cattivi della favola, la cui vendetta implacabile e parossistica smonta qualsiasi impalcatura di realtà del racconto.
Infine a sciogliere lo stallo tra Stoner e la sua nemesi – che di per sé è troppo bloccato per produrre narrazione – c’è il fortunato personaggio di Finch (il cui aspetto salubre è la concretizzazione della sua consustanziale non belligeranza e ne rafforza l’aura da Ponzio Pilato imprigionato tra cinismo e pietà) che snoda i punti salienti del racconto, custodendone l’unico prezioso scarto di imprevedibilità.
Non è possibile sbagliare; come in un cartone animato di Walt Disney che pedissequamente assegna a ogni tipo psicologico una diversa specie animale, ci basta la prima sommaria descrizione del personaggio per assegnargli senza errore la giusta dimensione.
Se la definizione di romanzo può essere racchiusa nel famoso postulato “le cose non sono quelle che sembrano”, è necessario allora leggere Stoner rimuovendo la lente che il romanzo americano ci ha incastrato dietro gli occhi. In Stoner non c’è gioco per immedesimazioni più o meno facili che magari ci consolino delle nostre nevrosi come in un libro di Richard Yates o facciano tirare un sospiro di sollievo alla nostra coscienza sporca; al contrario, tutto ci è dato con una bellezza e una misura antiche che parlano piano di un mondo anteriore e superiore a quello della Storia e ci dicono, con una voce che viene dal nostro primissimo passato, che il vero nucleo delle cose sta nel loro svelarsi per quello che sembrano.
Così, con la stessa eccitazione e lo stesso sollievo che proviamo nel trovare il lupo appena dopo che Cappuccetto Rosso devia dalla solita strada, sappiamo che se la piccola Grace sta prendendo peso è perché a breve lascerà il mondo di Stoner e che, se si sentono i passi di Lomax lungo il corridoio della facoltà, dobbiamo aspettarci il peggio; tutto ciò mentre monta l’attesa che il finale sveli una morale.
La morale di Stoner è “Perdonatevi!”: perdonatevi il matrimonio promesso, perdonatevi quegli sconosciuti dei figli, perdonatevi il lavoro che avrebbe dovuto risolvere tutto, perdonatevi le passioni che vostro malgrado vi hanno recluso, perdonatevi dal senso di colpa, perdonatevi l’essere stati al mondo.
«Cosa ti aspettavi?» mentre muore Stoner se lo ripete a mente, così in buona fede che la domanda prende a perdere senso e giunge in tempo la redenzione del perdono. Stoner trova il modo di vivere per un ultimo istante già a mollo in quella morte colma di gioia e significato, che prima sperimentò un altro personaggio delle favole, l’Ivan Il’ić di Tolstoj, con cui le analogie sono tali e tante da non lasciare dubbi su una diretta parentela.

Stoner di John E. Williams
traduzione di Stefano Tummolini
Fazi, 2012
pp. 332, €17,50

Leggi la recensione di Chiara Rea su Via dei Serpenti 
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