Dorinda Di Prossimo - Quaderno millimetrato - Incerti editori, 2012
Non so nulla di questa autrice, tranne il fatto che è piaciuta ad un
amico di cui in genere apprezzo l'intelligenza. Dunque starò ai versi, a
quel che leggo, al dato, per così dire, sensibile.
Il titolo rimanda subito ad un concetto spaziale, al quadrato, alla
misura. Per che cosa lo spazio, se non per abitarlo, attraversarlo,
riempirlo di "oggetti" o forse - se infinito - perdercisi? Lo spazio è
spaventevole se non lo "familiarizzi", o meglio se non lo rappresenti e
simbolizzi (secondo Kant) o se non lo reifichi (secondo Bergson)
prendendone un positivistico possesso. In entrambi i casi (e in altri
che tralasciamo) quello che cerchiamo di tenere sotto controllo, il vero
obiettivo, è in realtà il tempo. Personalmente credo che
esista un'agorafobia poetica in molta della poesia attuale, un horror
vacui che molti cercano di riempire di echi, di parole, di "cose" e in
cui gli oggetti (o i fatti tangibili) diventato totem dell'esistenza,
sue testimonianze. Ma quello che ci spaventa è in realtà lo scorrere dei
giorni, con il loro carico di memoria, se si guarda al passato, o di
profonda incertezza, se pensiamo anche solo a domani mattina.
All'interno di questi schemi sommari, la poesia di Di Prossimo si
muove a proprio agio, anzi vi abita confortevolmente, spaziando nei due
sensi del tempo, quello del ricordo, soprattutto dei genitori, e quello
del quotidiano (del futuro invece, come in quasi tutta la poesia
contemporanea, non c'è traccia), una quotidianità rifugio costituita
dall'osservazione dei "fenomeni" e da come essi risuonano nella
sensibilità dell'artista. Giustamente Sebastiano Aglieco, in una nota al
libro pubblicata sul suo blog, parla di esistenzialismo abbassato di
tono, "postbellico". Se sia postbellico non so, ma certamente in questo
libro risalta una convinzione particolare, che cioè sia necessaria la
coscienza (in questo caso poetica) come liaison tra uomini e
cose, una coscienza individuale (e quindi solitaria, e quindi relativa)
capace di leggere in proprio e in maniera del tutto parziale qualche
frammento di realtà. Un'attenzione - anche - piuttosto millimetrica,
come dimostra ad esempio una punteggiatura (il punto fermo) frequente
anche all'interno di singoli versi, che "stacca" le cose, le isola a
volte a sintagmi nominali, in qualche modo le confina, ancora le
familiarizza e cerca di ridurle ad uno stato di maneggiabilità.
Questioni forse marginali, in relazione a un libro complessivamente
suggestivo.
Le suggestioni, in questa opera, hanno le loro ragioni concrete. Proviamo ad individuarne alcune:
parlerei intanto di una poesia per "accostamenti" progressivi, di
avvicinamento alle cose (cose anche concrete) e ritorno, che crea una
fitta relazione cose/sensazioni e cose/stile. Tipico in questo senso il
testo "Alle cinque e quaranta del mattino cielo ancora" (v. sotto), in
cui si evidenzia anche un altro elemento fondamentale: una cognizione
del tempo (e del dolore che comporta) affatto particolare, un tempo che
tende psicologicamente all'immobilità, alla sospensione o a un suo
drastico rallentamento, tende in qualche maniera quindi alla fotografia,
ad uno struggente "restasse così". E' il tempo problematico della
poesia, naturalmente.
L'altro elemento interessante è che l'io c'è (ammesso che parlarne
significhi ancora qualcosa oggi) ma è totalmente antilirico, poiché è
preso in una centralità tutta sua, è al centro di un panopticon da cui
osserva a trecentosessanta gradi ogni evento, ogni fenomeno, ogni
manifestazione concreta del reale (e dei suoi echi sulla psiche), da cui
osserva cioè - e qui si torna a questo termine tanto usato quanto
misterioso - ogni "cosa". Utile esempio è ancora la poesia citata, in
cui c'è una profusione di oggetti concreti, tangibili, quasi un elenco.
Un corollario di questo approccio è che si tratta di una poesia
potenzialmente infinita (poichè infiniti sono gli "oggetti" e le loro
armoniche vibrazioni sulla vita e sulla scrittura) e quindi totalmente
biografica, anzi biologica, finché c'è fiato. E tuttavia tante volte il
ricordo prende il sopravvento sulla fenomenologia esistenzialista,
disponendola in una storia che ha un suo pieno senso oggi.
Giacchè, come mi ricordava appena ieri uno scrittore che conosco, la
memoria è il presente di un passato. E' quindi corretto parlare qui di
storie, anzi di belle storie (lo spazio in questo libro, per quanto millimetrato,
è anche spazio narrativo) con rarissimi tratti gozzaniani ("Non si
dorme la domenica, su su, andate / in cucina. Anna vi prepara l'uovo
sbattuto - / E si lasciava il piccolo tepore delle lenzuola, / tripli
calzettoni per correre in corridoio..."), ma sempre marcate da bei
finali.
Infine: che questa sia poesia femminile (ancora?) è lapalissiano. Come
non essere d'accordo con Alida Airaghi nella nota conclusiva: "E' una
scrittura assolutamente femminile, intrisa di una femminilità
addirittura sensuale, sebbene di sesso non parli mai, e poco anche di
amore"? D'accordo, femminile, ma nel senso - anche almeno - di una
attenzione "inventariale" che le donne hanno verso il concreto e la
buona prassi, anche quotidiana. E forse aggiusterei "sensuale" con
sensista, che è una forma forse non "postbellica" ma certo più radicale
di quell'esistenzialismo di cui si parlava prima. (g.c.)Nota a margine: gli Incerti editori sono tutto tranne che incerti. Si stanno anzi evidenziando come piuttosto attenti, come è possibile vedere anche solo da quanto presente qui su IE.
M’aggiusto coserelle senza ambiguità,
al mattino. Due righe di luce rubate ai vetri,
quattro versi di pensieri (un viaggio, la cura
d’una fuga), la polpa del caffè. Mi faccio chiara,
senza il lusso della speranzella. Pitagorica,
direi. Una moltiplicazione di molliche di buona
educazione (parlati piano, Dorì, lavati gli occhi
di ieri, metti la linda parananza). Rinvio
il sommario del freddo, la tenacia d’una felicità.
Alla poetica sgrammaticatura, m’affido,
alla colletta della nicotina; bionda, sulla ritmica
unghia, andantina.
Scrivo come tu sai. Portandomi a destra sinistra
del foglio, nella posizione intera della notte.
Indisturbata. Un poco a pungolare per fame.
Solo quell’appena di dispensa sguarnita
che esiste. Sta. Anche in una casa così bella.
Laterale al sole. Con le lettere in fila.
Per fatalità. Appunto da destra al bordo.
Finanche alle righe rimosse. Indestinate.
In tutto buio scrivo. Ti riporto al bianco rumore.
Una gran botta di suono. Rimedio qualche
chiazza di capelli. Stanno qui. Dentro il giornale
quotidiano. Cosa a veder cosa. In tranquilla
lontananza. Certo credo di sapere.
Non delle tue corse. Ma del tuo intorno,
delle affezioni. Zampette in punta. Io zoppico,
compiuta. Convinta che lucidar ringhiere sia
la destra del tuo occhio. La zolla grassa
per fermarsi. Anche così. I libri aprendo.
Le stoviglie in soffitta. Per farci spazio.
Per. Appuntamenti. Quasi per sempre.
Che poi il pavimento si chiude da sé.
Vennero alla spicciolata le zie, tutte sorelle
tra loro. A turno fecero le notti, un poco
guardando dalla finestra, un poco richiamando
Sant’Antonio ai suoi doveri. Giaculatorie
spalmate sulla sedia. A volte, zia Elodia
s’assopiva, zia Concettina chiedeva
all’infermiera quando lo strazio sarebbe finito.
Carolina, maggiore d’anni e di sorrisi, in testa
contava le torte da ricamare, le federe,
i lenzuolini. E, credo, nel giardino dell’ospedale,
un vento di marzo facesse il suo bel rumore
tra i buchi dei portoni, tra i fiori prestigiati
al sole. Mia madre intanto cercava di partorire.
Una colica renale ficcava dolore. L’utero
distraeva dal farsi carrettino. Nemmeno un
cencio di testolina ancora voleva uscire. Eh sì.
Credo che tre giorni così avrebbero ucciso
anche un mulo. Da sbiancare le sedie, da farsi
il segno della rassegnazione. La levatrice
ogni tanto nitriva. Il dottore nelle viscere frugava.
Mamma diceva che costa cara la resurrezione.
Ma, forte debole spingeva. Il nome di mia
nonna dovevo portare. Quindi. Che il vento
freddasse pure i tetti. Ingrugnisse pure il bordo
dei bicchieri. Le fette dei pensieri sulle nocche.
(Sapeva mio padre sgraziare d’un biancore di
mascella, purezza di meridionale avrei
appuntato io, col tempo a venire, a dire,
a giocare, a sprezzar di voce e sconsolare).
E a un forcipe diedi il grande onore. Di far
danzar le braccia delle zie, di sciogliere i colori
di papà. Gli infermieri portarono serenate.
Mia madre in pelle d’acqua. I santi a dormire.
Ti dico madre che nell’infermità del ricordo,
a volte, perdo il debito dei tuoi occhi. Mi fido
della brusca prontezza dei miei. Stiro riscaldo
le ciglia, faccio nottate d’espressioni, finché
riappari. Quadro pensiero. Quasi del tutto viva.
Gelosa nei capelli, la bocca che pinza smorfie.
Ma non mi arriva in pancia la tua voce.
Le sillabe dei sillabari dolorosi. La tua punta
eterna di rondine che non vola. Mi pronunciavi
tintinnosa, m’accentavi d’ago fino. E mi voltavo
indietro, ogni volta ripassavo la giaculatoria che
ti perdonava. Non m’ero vestita che di nastri e
sangue per pulirti la bocca, le gambe di fontana
senza fiotti. Sapevo, riconoscevo tutte le ostie
che t’ingoiavi dentro quel segno che mi
comprava, ginocchia, spalle, caviglie. Così
t’ancoravi a una postura illuminata. Così so
perché nel mio paese di pelle e corda
improvvisate, tu mi t’inchiodi nei vasi, a notte.
Nel cranio dei limoni, nella plastica sopra i
divani.
Ti è toccata a destino, padre, una figlia dispara
d’occhi, nel fuori quadro, pungolante
e disarmonica. T’è toccato vederla senza
preghiera invecchiare. Si potrebbe intitolare
«Figlia con padre, o l’ora che torna preziosa»
nel quadro che si muove dalla cucina
al corridoio. La figlia che frutta non si fa
sbucciare, il padre che taglia il pane, dice –
Fiori ho comprato per la tomba – invisibile
invenzione d’un sospiro. Oggi sono un’ora
ferma, materia fredda per serpenti. Càpito a
sproposito, infestiva, nel calendario dei rossi
giorni. Eppure. La parola eppure mi sembra
un’àncora per mozzi in risalita. Solo che non so
se fuori dell’acqua trovo una profondità che mi
risucchia. Coltiva «erba» una mia amica. E mi fa
pensare ad una panchina. Dopo spettacolo. Il
mio sedere incollato al freddo, gli applausi
imbarazzanti. Uno spinello che passeggiava tra
le dita e le labbra stanche. Mi chiedevo se il tal
uomo m’amasse. E sentivo i sandali stretti.
In scena, invece, non fumavo. Tanto era facile
dare di verso altrui un gesto rallentato. Mentre
scrivo ho, accanto alla tastiera, gli orecchini
d’osso, rossi. C’è una curva di foglia argentata.
Il pacchetto delle sigarette. Un accendino come
l’occhio azzurro che si sfascia lontano.
«Lo spleen de Paris» che Baudelaire mi tocca, direi
con quotidiana gioia d’un messale. E. dita.
Le mie. Piccolo armistizio d’un congedo.
Alle cinque e quaranta del mattino cielo ancora
denso blu. Qualche mossa di vento fresco
entra, cova sulle tende a vetro del soggiorno.
Tende bianche con filo di merletto a smagliare
la luce, quando arriverà, sul divano buono,
i tappeti a prezzo minimo, gli attrezzi per il
camino. Neri, quasi lucidi a lato, sotto i poster
blu. Alle sei e zero due pause e rumori. Rumori
e silenzi assestati. Tra il balcone, la strada,
i sacchetti flosci della differenziata. La notte
non si risparmia. È settembre. Tutto s’accuccia,
per conclusione di foglia, per il grasso marrone
che si stria, si sdraia. Si fa il fieno, a settembre,
si sfrondano le viti. Sei e diciassette. Un po’ di
chiarore s’accosta. Ma non stringe i tetti.
È un piccolo colpo di luce confusa. Ché il
lampione ancora punta. I balconi, le scope,
le stelle dell’hotel, qualche sogno combaciante.
Sul cuscino, sul comò. Sui trastulli del ciccì e coccò.
Esco. Dopo questa sigaretta che mi cessa
in gola. A far pezzi di passi. Dal vicolo che porta
alla casa gialla. All’infrangibile aria delle finestre
incartate. Verso il mare. Vado. A far notturna
la sera. A suonarmi le dita nelle tasche. Aiuta
gli occhi una felicità inaddormentabile. Che nei
capelli sta. Come i primi viaggi alleggeriti. A far
spese di gocce per le labbra. Ribes sapore. O
sole speso a grani. Anche s’è buio. E virgola
un treno ripetuto. Da nord a qui. Per tratti.
Esclamativi.