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Dorota

Da Elys
Dorota È immersa nel buio la camera di Dorota. Un letto sfatto, un comò con uno specchio intarsiato, un armadio, una poltrona consunta ai piedi di una finestra sono l'unica mobilia presente. Ovunque c'è odore di vecchio, di muffa rappresa sulle pareti. Riflessi lunari sottraggono all'oscurità un manifesto, ricordo di giorni lontani, di glorie e di champagne.
Applausi. Teatro pieno. «Magnifica, magnifica. Un'interpretazione magistrale.»
Dorota, seduta sul bordo del suo letto, le mani rugose incrociate sul grembo, ha lo sguardo inchiodato su se stessa. Su quel volto di una vita fa, sulla pelle di porcellana ravvivata da un velo di fard. Socchiude un po' gli occhi incorniciati da ciglia finte e da un eccesso di mascara. Brandelli di malinconia li sfiorano. La bocca trema.
«Li senti? Ti stanno chiamando, vogliono il bis.» Viso di uomo. Sorriso intriso di dolcezza, di un amore dichiarato. Quinte in penombra.
Si alza Dorota e barcolla un po', a malapena si regge sulle sue gambe incancrenite di vecchiaia. Un passo, poi un altro e raggiunge il comò. Il poster è proprio lì di fianco, vicino allo specchio. Si appoggia al mobile, serrando le dita sul bordo. Osserva l'immagine polverosa, la pettinatura anni trenta, le labbra rosso ciliegia. Il succinto abito da spettacolo. D'istinto sfiora il collo e scivola sul seno svuotato di giovinezza.
Pubblico in delirio. Sul palcoscenico, lei s'inchina e ringrazia. «Brava! Biiiiissssss!»
Sposta l'attenzione su un angolo del manifesto. Il profilo regolare di un uomo è rivolto alla sua figura. Sembra quasi pregarla di non lasciarlo mai. La vista si annebbia, tutto si fa incerto. Non vorrebbe piangere eppure le lacrime scendono da sole, anarchiche, ribelli alla sua volontà. «Antonio» bisbiglia e quel nome le risuona nelle orecchie a lungo, un'eco di nostalgia. Di assenza e di mancanza.
«Mi ami, Dorota?» «Sì, certo che ti amo.» «E allora perché non vuoi sposarmi?» «Perché ho paura.» «Ma io non ti abbandonerei mai.» «Io non sono capace di avere le tue certezze.» «Non importa, le avrò io per entrambi.»
Un fremito la percorre sulla schiena. Il suo sguardo bagnato si china sull'anulare della mano sinistra. Una fede nuziale brilla, incurante del tempo. Degli anni, di tutto. L'accarezza con il pollice. Chiude gli occhi e li riapre, le iridi bruciano. Il trucco le cola sulle guance disegnandole di nero, porpora, lilla. Apre il cassetto del comò. Dentro, un articolo di giornale. Un ritaglio.
"Antonio Ruperti si è spento la notte scorsa dopo una lunga e dolorosa malattia. Sua moglie Dorota Castelli, grande attrice teatrale, ha vegliato su di lui fino all'ultimo istante."
Sfiora appena la pagina ingiallita. La foto di se stessa e di suo marito di tanti anni prima. Un singhiozzo l'assale e le si spegne subito in gola. Indietreggia tappandosi la bocca e urta contro il letto. Una brezza fresca, primaverile, penetra nella stanza dalla finestra. I vestiti appesi nell'armadio aperto ondeggiano piano. Quelli di scena, logori e stracciati in più di un punto, emettono un fruscio con le poche paillettes sopravvissute al dolore della donna.
Abiti sparsi sul pavimento della camera. Dorota, inginocchiata a terra, stringe un lembo di stoffa. Altri se ne stanno abbandonati negli angoli, mangiati da un crepuscolo nascente. La cornetta di un telefono rovina il silenzio con la voce di un uomo. «Dorota mi dispiace per Antonio ma vuoi davvero abbandonare tutto?» Dorota tace, gli occhi spalancati. «Dorota? Dimmi qualcosa.» Silenzio. Ha le labbra serrate Dorota. La stanza, i mobili, tutto le sembra sappia già di vecchio.
Apre la porta e resta ferma sulla soglia del corridoio. Strati di polvere coprono il pavimento. In fondo, sulla sinistra, c'è una scala. Non la distingue bene per via dell'oscurità pressante ma sa che è lì. Come sempre. La carta da parati è divorata dall'usura. Torna nella camera. China la testa, circondandosi le spalle con le braccia. Trema, di nuovo e più forte.
Afferra la cornetta e finalmente riesce a rispondere al suo manager. «Sì.» Ma è l'unica cosa che le viene da dire.
«», ripete a se stessa. Al silenzio che l'avvolge. Si volta alla finestra adesso. Il vento solleva le tende e le riabbassa. Un movimento regolare, cadenzato. Ha la strana e vaga impressione che somiglino a quelle del teatro. Del suo teatro. Del suo e di Antonio. Esce sul balcone. C'è la luna piena stanotte e un cielo ricoperto di stelle. Solleva il volto. Il trucco si è rappreso sulle guance smagrite. Apre le braccia, assaporando il profumo della primavera. Poi, è un attimo. Il buio l'inghiotte nel sussulto di un respiro. L'ultimo.

 Foto di Darac


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