
«Se non cacciamo di sella gl’inetti e gl’intriganti,non so dove andremo a parare»Francesco De Sanctis, Lettera a Carlo Lozzi, 13 agosto 1866
Dei ventuno tomi dell’opera omnia di Francesco De Sanctis che la benemerita Einaudi sfornò alla fine degli anni ’60, e che qualche tempo fa ebbi la fortuna di trovare in un negozietto di libri vecchi a un prezzo irrisorio, confesso con orgoglio di non aver neanche sfogliato i primi quattordici, quelli che raccolgono i suoi scritti di critica letteraria. Non mi azzardo a sottovalutarne i meriti in quel campo, sennò mi becco la rampogna di qualche suo pronipote, dico solo che al ginnasio ho avuto la sventura di incocciare in una professoressa di italiano che me lo fece venire a nausea, sicché mi è salutare, oggi, trascurarlo come uomo di lettere, limitandomi a considerarne l’impegno civile e politico. Ed è riguardo a questo aspetto che i rimanenti tomi (scritti e discorsi da parlamentare e da ministro, pagine autobiografiche, epistolario) mi tornano di sovente tra le mani, procurandomi diletto.Brav’uomo, il De Sanctis, dunque del tutto inidoneo alla politica come mestiere, e tuttavia capace di automedicare le disillusioni e le ferite che avrebbe dovuto riportare dagli anni in cui le si offrì, come dimostra una pagina di Un viaggio elettorale, nella quale al patente fallimento della prima legislatura postunitaria oppone una formidabile speranzuola: i posteri trascureranno i «particolari» e saranno meno severi di quanto i contemporanei non possono e non devono fare a meno di essere.