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Dove iniziare per costruire il futuro

Creato il 14 aprile 2012 da Symbel

Dove iniziare per costruire il futuroI numeri che riflettono la situazione attuale dell’Italia fanno paura: dal debito pubblico al livello della pressione fiscale, passando per gli indici dell’ elevata inflazione tendenziale, della contenuta crescita dei salari, della drammatica disoccupazione giovanile, e chi più ne ha più ne metta. E a nuotare in questo mare di guano non ci siamo arrivati precipitando da un baratro un giorno con l’altro, ma percorrendo, seppur a passo affrettato, una china scivolosa da almeno un ventennio. Di questo naturalmente non è responsabile il governo Monti, così come soprattutto del fatto che politici e media, salvo qualche sparata qua e là, non hanno mai lanciato realmente l’allarme. Dall’eurotassa di Prodi che doveva essere sufficiente per entrare in Europa tra i grandi, all’ottimismo berlusconiano della crisi passeggera e dei ristoranti sempre pieni, nessuno si era mai sentito in dovere di proclamare il rischio di ritrovarci presto in uno stato d’emergenza.
Ma tant’è oggi così stanno le cose, e la strategia comunicativa della squadra di Monti e del mondo dell’informazione si è improvvisamente rovesciata. E allora si va di “bagno di sangue”, di “stringere i denti”, e di decreti Salva-Italia, salva-debito, salva-economia, salva-di qui e salva-di là. Il più inguaribile degli ottimisti probabilmente penserà che sia sufficiente investire all’estero, mentre per i più pessimisti ci pensa Di Pietro con discutibile tatto e senso civico ad affermare che i recenti suicidi sono sulla coscienza di Monti. La scelta di saltare a piè pari lo step della transizione, passando in un giuramento davanti al capo dello stato dalle stelle alle stalle, è parecchio discutibile. Sicuramente destabilizzante. Condita inoltre dagli atteggiamenti di spocchia di Fornero & Co, che si premurano di farci sapere che lo fanno per noi e che se non gli si dà retta si fanno tranquillamente da parte e sono cavoli nostri, rende infine il tutto abbastanza indigeribile.
E’ interessante notare come vi siano differenti letture di questa empasse comunicazionale. Oliviero Beha, noto giornalista di estrazione di sinistra, imputa tra le cause il fatto che l’attuale governo sia sotto scacco del paradosso noto come comma 22, ovvero, in soldoni, di un circolo vizioso alla genesi della sua esistenza.  L’attuale premier infatti risulta in carica per ovviare all’incapacità della politica, intesa nel suo intero dipanarsi da sinistra a destra, di varare riforme e intervenire per risolvere i guai dell’Italia. Ma nello stesso tempo, non essendoci state elezioni, i politici sono ancora lì in Parlamento, e possono decidere del destino del governo. Così, citando dal suo blog civico www.olivierobeha.it, in data 5 aprile scrive che “il governo ha in mano come forma di pressione nei confronti della politica la gravità delle condizioni di salute del malato davanti al Paese”. Ma allo stesso tempo, appena la salute del malato peggiora sotto le cure del governo in carica,”la politica rialza la testa e Monti ondeggia se non balbetta addirittura”.
Dalle colonne de il giornale del 10 aprile Renato Brunetta, ex ministro del governo Berlusconi, scrive invece che “i comportamenti fuori misura sono frutto di un governo non eletto dal popolo, sono l’espressione tangibile dell’oggettiva irresponsabilità di chi non deve fare i conti con il Paese, di chi gode di una sorte di impunità …”.
Difficile smentire i due pensieri, entrambi corretti. Stante inoltre il degrado della classe parlamentare in auge, dopo aver sottolineato il “fenomeno d’intramontabilità dei nostri politici”, Beha nel suo blog ragiona sovente sulla necessità che non cada l’attuale governo per non subire danni maggiori. Il pensiero che le redini possano nuovamente passare nelle mani di chiunque sieda oggi eletto sulle poltrone di Montecitorio provoca un brivido nella schiena di chiunque sia dotato di un pizzico di comprendonio. Tuttavia il futuro, prima o poi, dovrà anche essere affrontato, e un rinnovamento posto in essere. Se non ché, la fase attuale certamente può solo fare male alla politica, essendo per nulla di ausilio ad un suo riscatto. Coma fa notare Brunetta “siamo all’interno di una particolarissima fase politica: ambiziosa ma deresponsabilizzante, in cui se va bene vince il governo, ma se va male perdono i partiti che lo sostengono”.
Sintetizzando le valide argomentazioni di Beha e Brunetta, lo schema che ne risulta atterrisce: ad essere soggetto al paradosso del comma 22 ne usciamo infatti noi italiani. Della serie “comunque vada, sarà un insuccesso”.
Proviamo ora ad andare oltre. Che bisognasse adottare un certo rigore finanziario non è da dubitare, così come il fatto che la democrazia soggetta al tritatutto mediatico di oggi era palesemente incapace di supplire alla bisogna: ormai l’andazzo era che se tocchi le pensioni ti fanno cadere, se alzi le tasse ti fanno cadere, se favorisci confindustria ti fanno cadere, se dialoghi troppo con il sindacato ti fanno cadere. Siccome alla tua poltrona ci tieni più che al bene del Paese, te ne guardi bene dal fare mosse impopolari e continui a tirare la corda sperando si spezzi tra le mani di quello che ti succederà. E quindi, data la totale assenza di equilibrio tra l’attuale maturità delle coscienze, dei politici, e della gestione e pressione del sistema mediatico, probabilmente il passaggio ad un governo non eletto dal popolo non era bypassabile.
Certo i  professoroni dei numeri solo di rigore finanziario stanno ferendo. Ma a recessione ampiamente in corso il mercato della domanda subirà una nuova contrazione, che rischierà di provocare un abbassamento dell’offerta o il suo collocamento in altri paesi. A meno di lavorare su un abbassamento dei prezzi al consumatore, cosa difficile dato il costo del lavoro strettamente crescente.
Sarà necessario lavorare su due fronti, questo dovrebbe essere chiaro, e lo si dovrà fare all’interno di un contesto di un governo politico. Ma come uscire dal comma 22?
Dalle colonne di Repubblica Mario Pirani, sempre in data 10 aprile, analizza la situazione, ammonendo a non incorrere nel rischio di lasciarsi trascinare dalle ideologie nella comprensione degli eventi: “in siffatti travagli si perdono le capacità del giudicare e dell’agire empirico, preferendo farsi trascinare dall’ideologia, come chiave esplicativa del mondo. Così oggi l’icona elegante di Mario Monti è soggetta a molteplici letture …” Un raffinato richiamo, che in fondo si potrebbe vedere abbracciato in questo scritto, dove le letture di fatti viste da destra (Brunetta) e sinistra (Beha) vengono ritenute entrambe corrette e condensate. Pirani nel suo editoriale si richiama inoltre alle parole della Camusso in merito all’art. 18, le travisa (volutamente e con onestà sottolineando l’artificio), ed auspica uno scatto di maturità del riformismo italiano sulla base del modello tedesco, dove il dialogo tra sindacati ed imprenditori, veicolato dal governo, risulta di tutt’altro costrutto: “… sarebbe davvero auspicabile se la casuale apertura della Cgil sul “modello tedesco” si allargasse a un nuovo discorso del riformismo italiano, capace di confrontare i propri risultati con quelli dei confratelli d’Oltralpe, lasciando finalmente alle spalle il magazzino di oggetti in disuso della lotta di classe e delle sue logore bandiere da sventolare quasi sempre sulle sconfitte”.
Risulta sinceramente difficile non leggere nella parole di Pirani una aspettativa nei confronti del popolo di sinistra. Vuoi per la storia del giornalista, vuoi per il consumatore cui il quotidiano è indirizzato. Vuoi perché  casualmente il monito arriva a distanza di meno di un mese dall’incontro dei rappresentanti delle sinistre europee a Parigi (17 marzo), patrocinato dalla Fondazione per gli Studi Progressisti Europei (tra i fondatori Massimo D’Alema), nel quale si dibatteva proprio del futuro dei riformismi europei. E vuoi soprattutto perché si fa riferimento all’interno dello stesso editoriale al modello renano, ed è dunque assai difficile da leggere davvero, come da incipit, scevro da ideologie.
Resta il fatto che un modello dove le parti sociali, insieme con la politica, trovino compromessi per il bene di tutti, sembra lontano anni luce dalle esperienze vissute ad oggi in Italia. Eppure non ci sono molte altre soluzioni pacifiche, forse addirittura nessuna. I sindacati devono abbandonare le icone della lotta di classe, e le unioni degli industriali essere liberate da quei meccanismi sanguisuga ai danni del Paese per cui troppo spesso controllati e controllori combaciano nascostamente (e nemmeno sempre, talvolta spudoratamente) con danno doppio ai lavoratori, diretto ed indiretto tramite distorsione del corretto funzionamento del mercato. E che pertanto, nel medio periodo, si trasforma comunque in un boomerang verso gli imprenditori stessi, logorando il mercato stesso.
Poi se questo modello si chiamerà “renano”, “socialdemocrazia”, “cristianesimo sociale”, “liberalismo sociale”, o chi più ne ha più ne metta, lo si vedrà in base alle inclinazioni che assumerà anche sulla base delle pressioni dell’elettorato (almeno speriamo, e non di nuovo in base ai “movimenti interni”).
E’ un passo culturale, prima che politico, economico e sociale, al quale le istituzioni italiane, i nostri politici, ed il nostro sistema mediatico sembrano terribilmente lontani.
Ma bisogna riflettere sul fatto che la scure del futuro pende inesorabilmente sul futuro delle generazioni attuali, e della maturità della nostra classe dirigente se ne sbatte allegramente. Non avendo la bacchetta magica, possiamo almeno confidare che si consolidino maturità e responsabilità nella società civile, e che per osmosi si diffonda poi versi i piani alti. E poiché la società civile non è altro che la somma di noi tutti, individui dotati, chi più chi meno, di coscienza e materia grigia, sarà bene sgomberare la testa dai sogni irrealizzabili, aprire bene gli occhi, rimboccarci le maniche e impegnarci ad arrivare e a costruire questa consapevolezza e questa maturità nel più breve tempo possibile. Se non per noi, almeno per i nostri figli.

Masonmerton (collaboratore)

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