Quasi certamente girovagando per YouTube vi sarete imbattuti anche voi in qualcuno di questi vetusti filmati in cui una danzatrice dalle doti tecniche non eccelse si dà un gran daffare ad agitare le braccia come fossero pale di un mulino a vento per far vorticare, suggestivamente devo ammettere, i fluidi e cangianti pepli di cui è drappeggiata. La sua grande abilità nell'usare abiti lunghi anche parecchie decine di metri, che lei faceva turbinare impugnando un paio di invisibili bacchette, luci che cambiavano continuamente colore e una gran quantità di specchi che ne moltiplicavano i movimenti, creava una sorta di effetto ipnotico che mandava in visibilio il pubblico, che della modestia delle sue reali prestazioni danzerecce si faceva un emerito baffo.
Mary Louise Fuller, detta Loie, americana dell'Illinois nata nel 1862, non era nemmeno quella gran bellezza. Eppure, anche se, a parte gli addetti ai lavori, oggi quasi nessuno se la ricorda più, a cavallo tra otto e novecento fu la beniamina incontrastata di tutti i poeti scrittori pittori e ogni altro genere di intellettuale in circolazione a Parigi.
Amica di Rodin e di Hector Guimard, immortalata da Touluse Lautrec e dai fratelli Lumiere, Stéphane Mallarmé la definì nientepopodimenoche la forma teatrale di poesia per eccellenza.
Tra tutti i tributi di cui la Fuller fu fatta oggetto ai tempi del suo sfavillante successo, il più originale resta l'omaggio resole dallo scultore Pierre Roche che nell'edificio di rue Reaumur 39, proprio davanti al
Musée des Arts et Métiers, l'ha fatta diventare una doppia cariatide che, mano sotto il mento e sorriso a metà tra il divertito e il beffardo, sorregge con nonchalanche un balcone mentre guarda la gente scapicollarsi qualche piano sotto ai suoi piedi. Forse se la ride ancora al pensiero di quanto le è stato facile imbambolare e mandare in estasi una intera generazione facendo leva solo su qualche metro di stoffa un po' di specchi e qualche lampadina colorata
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