Con questo post voglio cogliere l’occasione di segnalarvi un blog che seguo con molta attenzione. Si tratta di Penna Blu, di Daniele Imperi, un interessante spazio di discussione per tutti gli appassionati di libri e di scrittura.
In particolare, un articolo apparso il10/11, il cui titolo era Il futuro della fantasy, mi ha spinto a rispolverare una vecchia riflessione che ho portato avanti nella rubrica che fino a qualche tempo fa tenevo sulla webzine “Sul Romanzo“, rubrica che purtroppo – per alcune vicissitudini – ho dovuto abbandonare (spero soltanto momentaneamente).
La domanda è: qual è la prospettiva della fantasy italiana?
Credo che questa sia la tipica domanda da 1.000.000 di dollari (o di euro, se preferite). La fantasy italiana ha sofferto molto per riuscire a emergere, molto spesso i potenziali lettori liquidavano velocemente la faccenda con frasi del tipo «Gli italiani non sanno scrivere fantasy!» e cose del genere. Oggi la faccenda è un po’ diversa, si cominciano a vedere casi esemplari di fantasy anche qui da noi. Non voglio fare nomi, per non scontentare nessuno, ma è palese che esiste una nuova generazione di scrittori che stanno sfornando una serie di romanzi notevoli e che non hanno nulla da invidiare ai più blasonati autori inglesi e americani.
Nel suo articolo, Daniele Imperi fa una buona analisi dello stato dell’arte e suggerisce agli scrittori nostrani di rivolgersi più alle fiabe e ai miti della tradizione popolare italiana, piuttosto che andare a pescare a piene mani nell’immaginario fantastico di popoli che ci sono lontani sia geograficamente che per cultura. Io sono d’accordo, ma in parte.
Penso che la vera strada sia quella di mescolare, miscelare, intrecciare, pestare, amalgamare, plasmare tutto fino a farlo diventare una poltiglia informe da rimodellare a proprio piacimento. Non riesco a vedere l’utilità di ignorare completamente un aspetto – che poi è quello fondativo – di un genere, per sceglierne, quasi aprioristicamente, un altro. Sono convinto della bontà della contaminazione, ma l’originalità può anche stare altrove, credo. Riuscire a creare un mondo coerente e credibile rappresenterebbe già un grosso passo avanti, utilizzare punti di vista innovativi, percorrere trame narrative inusuali, inserire piccole porzioni da altri generi, da altri luoghi, da altre fantasie.
Insomma, riportare tutto il dibattito sul fronte del problema “a quale mitologia mi rifaccio?”, mi sembra un modo di semplificare una questione che invece è particolarmente complessa e sono convinto che il bravo Daniele Imperi sappia perfettamente che la questione è ben più spinosa di così.
Quello che colpisce di Martin, ad esempio, non è tanto il fatto che nei suoi libri la magia sia usata poco o tanto, quanto piuttosto il modo originale in cui l’intero mondo è costruito nonché l’innovazione (almeno per la fantasy) rappresentata dal modo in cui è utilizzato il punto di vista. Senza contare la maniera in cui i personaggi sono costruiti e l’intera vicenda orchestrata (giusto per citare alcune peculiarità). Al contrario, sarebbe come dire che l’aspetto più pregnante dell’opera di Tolkien è rappresentato dalla creazione della lingua Quenya.
La strada della fantasy italiana sarà impervia, su questo non ci sono dubbi. Abbiamo tante di quelle eredità ingombranti da scrollarci di dosso prima di potere avere una mente votata alla fantasia! Tuttavia, stiamo riuscendo, col tempo, a ritagliarci un nostro spazio. O almeno credo.