Magazine Attualità
Rieccomi. Qualcuno si è lamentato con me perché scrivo di meno. In effetti è vero, trascuro il mio blog. La minore assiduità dipende da due fattori. Il primo è che sto scrivendo un romanzo storico molto impegnativo, la cui trama attraversa tre secoli, il che comporta un impegno e una ricerca documentale non indifferente. Ubi maior minor cessat, come dicevano i latini. Il secondo fattore è in apparente contraddizione con il primo. Scrivo pochi post perché mi chiedo se valga la pena portare avanti un blog come il mio. Cui prodest? – sempre citando i nostri padri. Mi rendo conto che gli argomenti che tratto e il linguaggio che uso, unitamente al particolare non irrrilevante che sono un Carneade, limitano il mio successo, penalizzano le buone intenzioni che informano il mio bisogno di comunicare con il mondo. So che se cavalcassi le mode avrei molte più visualizzazioni e possibilità di sviluppo. Se il mio fosse un blog di tendenza, e quindi trattasse temi di cucina, cinema o musica, mi si potrebbero aprire prospettive interessanti. Meglio ancora, potrei occuparmi di gossip o di argomenti sportivi. Il massimo sarebbe scrivere di sesso, con particolare attenzione all’omosessualità, ai giochi erotici e alle perversioni. Ma ognuno ama il proprio strumento musicale e predilige pizzicare le corde in sintonia con la propria anima, assecondando predisposizione, gusto e cultura personali. La verità è che sono nato nell’epoca sbagliata. I miei argomenti non si conciliano con la superficialità, l’indifferenza, la stupidità e l’ignoranza che imperano ai giorni nostri. Oggi, dedicarsi alla scrittura riflessiva, fatta di contenuti e non di luoghi comuni o bassezze, significa perdere tempo, mortificare le proprie aspirazioni, arrampicarsi a mani nude su una parete rocciosa sapendo già di non poter raggiungere la vetta. La vetta? Basterebbe salire un cincinino di quota per sentirsi appagati. Macché, non ti fanno nemmeno uscire dalla tenda che hai montato a valle, sul cui uscio hai avuto l’ardire di mettere la parola “scrittore”. Il vero problema è che la gente legge sempre di meno e forse non serve più scrivere. Oltre tutto, non c’è nulla di nuovo sotto il sole e scrivere, per quanto ci si sforzi di essere originali e attuali, significa ripetere ciò che altri hanno già detto, magari secoli prima. Viviamo in una società dove l’immagine e il suono sono preponderanti e la parola scritta è diventata una povera Cenerentola. Non si fatica ad ascoltare un brano musicale o a guardare un film, mentre la lettura di un libro richiede concentrazione e memoria. In un mondo dove valgono le regole ciniche e dominano le logiche di mercato, i libri sono quanto di più inutile e scomodo esista. Un certo tipo di libri, preciso. Perché il mercato editoriale non è ancora esangue. Si continuano a pubblicare centinaia di migliaia di libri, la stragrande maggioranza dei quali destinata al macero ancor prima di uscire dalla tipografia. Libri stupidi, indegni di venire alla luce, inutili. Per contro, non trovano spazio libri che meriterebbero d’essere letti. I libri, che un tempo erano strumenti di conoscenza o intrattenimento, adesso sono beni di consumo effimeri, merce con il codice a barre e un’implicita data di scadenza. La parola scritta ha perso il suo fascino, ha rinunciato alle sue funzioni e si è adeguata all’imbarbarimento culturale. Si vendono, per lo più, i libri firmati dai comici, dai politici, dai giornalisti, dai cortigiani e dagli autori cari al palazzo e al partito. Raramente, in Italia, hanno successo libri e autori senza padrino o ascrivibili alla categoria “letteratura”. È già tutto prestabilito, quali libri affidare ai ghost writer e quali osannare tramite i critici per favorirne le vendite, quali portare in televisione e a quali assegnare i premi letterari. Almeno si avesse la decenza di non chiamarli più “letterari”, i premi gestiti da conventicole composte da uomini d’affari. La letteratura è defunta nel nostro Paese di morti viventi e sarebbe il caso di non prendere per i fondelli il pubblico, soprattutto i sopravvissuti, quei romantici lettori amanti del bello che si ostinano a leggere e ad amare i libri veri, scritti bene. In questi giorni, in cui passo anche otto/dieci ore davanti al computer perché sono immerso in una fase creativa frenetica, ogni tanto faccio una sosta e mi interrogo. Considero se la mia storia in divenire sia piacevole e ben costruita e mi chiedo se potrò mai proporla con fortuna a un agente letterario o a un editore. All’istante, appare la risposta. Sì, la storia è bella, scorre facilmente e appassiona. La scrittura è ricercata e non sta a me giudicarne la qualità. Ovviamente non posso sapere se questo nuovo romanzo sarà pubblicato o finirà in un cassetto, come gli altri. Ma una cosa la so. Anche questo romanzo, come i precedenti, non appartiene al genere spazzatura, non è dislessico, non contiene parolacce e volgarità gratuite, non è lessicalmente povero né pieno di errori grammaticali, non è postmoderno o banale. Ergo, difficilmente riuscirò a pubblicarlo e so perché. Mi ostino a fabbricare carrozze mentre l’editoria esige solo automobili e moto. Lo riconosco, sono un artigiano che si ostina a realizzare berline, landò, calessi e omnibus illudendomi che siano i mezzi di trasporto più eleganti, quelli che nutrono la mente e inducono a sognare, oltre a rendere il viaggio più emozionante. Mi piace costruire carrozze solide, nel cui abitacolo l’autore e il lettore possano sedersi vis-à-vis. Carrozze ben rifinite, confortevoli, suggestive. Dopo avere letto uno dei libri che ho pubblicato (Il cantico del pesce persico), una persona che non ho il piacere di conoscere personalmente ha voluto rimarcare che sono un cocchiere magico che sa condurre la sua carrozza con tale maestria da rendere il viaggio indimenticabile. Sono lusingato da un apprezzamento così fine. Sì, mi piace far salire sulle mie carrozze i viaggiatori che amano la compostezza e insieme il brio, il bello, i panorami suggestivi, le strade sorprendenti. Ma ha ancora senso tutto ciò?Forse dovrei smettere di costruire carrozze utilizzando legni pregiati. Dovrei rinunciare ai mezzi di trasporto a trazione animale (ndr: l’animale sono io) e convertirmi alla produzione di automobili veloci, iperaccessoriate, di serie. Però non so se ne sono capace o se ne ho voglia. Perché dovrei rinunciare a creare pezzi unici e uniformarmi, diventare uno scrittore seriale, marketing oriented? Non sono e non sarò mai un mercenario, una prostituta, un lacchè o un furbastro. Non invidio i Fabio Volo e i Saviano, né i mestieranti o gli autori acclamati i cui libri trasudano pressapochismo e sciatteria. Alla mia età, forte del disincanto e di essere un uomo sui generis, posso permettermi di restare fedele ai miei valori, di mostrarmi coerente e tenace, nella speranza che un giorno torneranno di moda i libri che valgono. Intanto, vado a riempire la mia rimessa, di cui sono fiero. Ho già quattro nipotini e confido che almeno loro, quando saranno più grandi, sentiranno il desiderio di fare un giro sulle mie carrozze, giusto per ammirare l’incanto della vita da una specola non comune.