Gli autori ungheresi contemporanei come György Pálfi o Kornél Mundruczó, e non sto nemmeno a citare Béla Tarr, sono irrimediabilmente lontani da questo regista di nome Tamás Sas, magiaro anch’esso, di cui in rete sono rintracciabili pochissime informazioni: nato nel ’57, attivo nel mondo del cinema dal 1986, con una manciata di film alle spalle tra cui alcuni episodi di una serie tv.
Se la tracimante fantasia e classe registica dei suoi compatrioti oggettivamente manca a Sas, gli va comunque riconosciuto un certo coraggio nel proporre un film come Down by Love (2003). Questo perché la strutturazione della pellicola è tutta concentrata all’interno del piccolo appartamento di Éva, e lo sguardo su di lei si fa ipocentro di una storia atipica dove tutti gli altri personaggi sono tali soltanto dall’altro capo del filo telefonico, da dietro un vetro smerigliato o al massimo se colti di schiena.
Con una pesantissima spada di Damocle che risponde al nome di Repulsion (1965), il regista trasforma il film, o almeno vorrebbe farlo, in una seduta psicanalitica che mette a nudo la personalità della protagonista attraverso un colloquio interno, intimo, esperienziale, in un viaggio ai bordi di una claustrofobica follia generata dall’amore o da un claustrofobico amore generato dalla follia, come dir si voglia.
Il meccanismo risulta però difettoso già dopo 15 minuti di girato. Nonostante l’impegno dell’attrice Patricia Kovács che non sarà Catherine Deneuve ma che si difende con dignità, il peso dell’opera di cui si fa carico è insostenibile, e così la progressione drammatica che nei fatti non sarà tale (è poco un abbassamento delle luci nel dispiegamento della trama) si incaglia in una stasi filmica a tratti insopportabile. La storia non è che fatica a decollare, non parte proprio! Non coinvolge, non risucchia, non assorbe, il massimo del dinamismo è vedere Éva rispondere al cellulare o preparare da mangiare, tanto che l’atroce atto conclusivo frutto del percorso che la porta ad uno sgretolamento sentimentale si vive con una certa indifferenza. Bella l’entrata in scena di tutti gli attori di cui fino a quel momento avevamo solo sentito la voce o al massimo visto l’ombra, ma è troppo poco e troppo tardi.