Ovvero del trovare tesori in luoghi improbabili. Perché va bene che internet ormai ci ha abituati alle peggio cose, ma “one man band black metal argentina dedita alla celebrazione della civiltà nuragica, con titoli in sardo” suona nel migliore dei casi come una puttanata tirata su per farsi due risate su Facebook, e nel peggiore come una di quelle cose vergognose che si speravano perse nella fogna degli anni ’90, tipo i gruppi italiani che si scoprivano odinisti all’improvviso e iniziavano a scrivere testi in norvegese per compensare chissà quale complesso di inferiorità. E invece non solo non è uno scherzo ma questo giovanissimo oriundo sardo trapiantato nella provincia di Buenos Aires, anonimo e mascherato come da prescrizione, dopo solo un demo e l’EP Umbras e Forestas del 2014 ha pure tirato fuori un mezzo capolavoro del genere.
Intendiamoci, Umbras de Barbagia non è la reinvenzione della ruota. Da un lato non si può negare che il manico ci sia: la produzione rende, il lavoro di chitarra è sempre ispirato e perfino la drum machine e gli strumenti campionati suonano corposi e organici. Ma lo spazio di manovra resta pur sempre quello ristrettissimo del black metal atmosferico contemporaneo (che già di suo non è che una variazione sul tema di Filosofem che va avanti da vent’anni) e il disco ne rispetta pedissequamente tutti i canoni, specialmente la tendenza a dilatare all’infinito la durata dei brani quasi per principio. E proprio questo fa emergere il limite principale dell’album: il fatto che i Downfall of Nur, quando spingono sull’acceleratore, non suonano diversi da mille altri gruppi di simile estrazione; convincono (perché l’abilità c’è), ma senza sconvolgere. È invece nelle parti più dilatate che il tutto decolla veramente e ogni volta che il muro di chitarre e blast beat cede il passo al lamento ossessivo dei flauti e delle launeddas, è facile sentire in Umbras de Barbagia lo stesso brivido che animava le prime opere dei Moonspell o di certi gruppi greci dei bei tempi. Non è cosa da poco.
È un disco di maniera? In parte sì. Eppure funziona, e soprattutto emoziona, a dimostrazione del fatto che talvolta mettere (consapevolmente o meno) un limite alla propria creatività paga, a patto che si abbia davvero qualcosa da trasmettere, in questo caso, un amore e una nostalgia profondi per la terra che si è dovuta lasciare. E se lo spirito del black metal nasce nel gelo e nel buio degli inverni scandinavi, a maggior ragione è bello vedere qualcuno che riesce a usare gli stessi cliché per cantare cose più vicine alle proprie radici, che siano leggende, pagine dimenticate di storia, o anche solo il torpore del mezzogiorno, il sole a picco e la malinconia di certi paesaggi bruciati dal vento. Perché possiamo raccontarcela finché vogliamo, ma siamo nati mediterranei e non possiamo morire vichinghi, ed è pure giusto che sia così.
In questo senso sì, Umbras de Barbagia è più della somma delle sue parti, è un mezzo capolavoro (anche e soprattutto in virtù dei suoi limiti) e rimane – assieme all’ottimo Lupercalia dei Selvans – l’unica uscita black che ho ascoltato con vero piacere nel 2015. Ad maiora. (Andrea Bertuzzi)