La lettera che Draghi e Trichet hanno mandato al governo italiano il 5 agosto scorso, suggerendo e quasi imponendo una manovra lacrime e sangue, credo che molte ragioni possa essere un documento storico. Per molti motivi: perché dimostra la cecità proterva del monetarismo e delle sue tesi, perché è un tradimento della conoscenza e infine perché mette in evidenza la vacuità e il cinismo delle nostre classi dirigenti. Fidarsi di loro è come smacchiare leopardi e forse on è un caso che una vasta platea politica e d’opinione dal Pd a Scalfari ha visto Draghi come un possibile “papa straniero”, come premier del dopo Berlusconi.
Invece Draghi subito dopo aver ottenuto la nomination alla Bce ha cambiato repentinamente idea, rispetto ai contenuti principali dell’ultima relazione della di Bankitalia, presentata il 1° giugno. Mentre si è arreso facilmente alla delirante idea di far cassa sulla pelle dei pensionati, non tenendo in alcun conto le specificità italiane che del resto assieme al’Istat, a decine di indagini italiane e internazionali, sono sempre state sottolineate dalla stessa Bankitalia.
Il famoso documento finalmente saltato fuori dalla palude chiede infatti che si diminuiscano di fatto gli stipendi statali e si agisca sulle pensioni per affrontare la crisi del debito.
Ora vediamo cosa diceva Draghi appena qualche mese fa sui mali italiani e precisamente il 1° giugno
«le dinamiche retributive sono modeste, non potendo troppo discostarsi da quelle della produttività: il mercato interno ne risente. Le retribuzioni reali dei lavoratori dipendenti nel nostro Paese sono rimaste pressoché ferme nel decennio, contro un aumento del 9 per cento in Francia»
Come dunque superare questo stato di cose? Come arrivare al pareggio di bilancio?
“Pareggio da raggiungere senza tagli in bilancio indiscriminati, ma partendo da iniziative concrete, come il lavoro per i giovani e le donne, rafforzando il sistema di protezione sociale e incentivando la produttività.”
Ma appena 65 giorni dopo il contrordine: la lettera al governo esprime tesi esattamente opposte, all’insegna di un’ottusa e inutile ricerca di un pareggio da effettuare solo tramite tagli e sacrifici sociali: il prezzo per la poltrona principale nella Bce.
E non parliamo delle pensioni: tutti gli studi e le analisi statistiche convergono nello stabilire che da qui al 2050 il sistema pensionistico italiano, al contrario di quello di altri Paesi europei, non aumenterà significativamente la propria incidenza sul Pil, rimanendo al di sotto del 20%.
Questa tabella elaborata dall’Università di Milano Bicocca , simile a molte altre descrive bene la situazione.
Il problema è semmai lo scarso livello di crescita e anzi il crollo del prodotto interno lordo negli ultimi anni ad alterare il rapporto Pil-pensioni. Ed è proprio su questo che si sta creando un polverone e un allarme artificiale che in realtà nasconde tutto il marcio di questo Paese e della sua informazione. Perché con le pensioni da fame che abbiamo risulta evidente che il punto dolente nel rapporto Pil-pensioni consiste nell’enorme ed abnorme area di lavoro nero che sottrae risorse all’Inps ed altera i rapporti macroeconomici.
Ma in senso più ampio mette in gioco tutta l’anomalia italiana, gli errori commessi, la mancanza di investimenti del sistema produttivo, la cultura dell’evasione e del nero, la scarsa demografia, frutto paradossale del familismo, la pervicacia nel rifiutare le braccia e le menti che vengono da fuori cercando di sfruttarle senza accoglierle. Tutte cose che Draghi sa, ma Francoforte val bene una macelleria.