Chi conosce bene il percorso artistico degli Earth non può certo meravigliarsi per questo nuovo disco solista del leader della band statunitense (ed erano già usciti in sordina una manciata di album con questo curioso moniker). Trattasi di una serie di esercizi di stile, in parte vicini alle ultime produzioni della band madre, utili per accompagnare le immagini dell’opera omonima del tedesco Thomas Arslan, un road-movie in salsa western sulla corsa all’oro presentato all’edizione 2013 del Festival del cinema di Berlino, che da noi non ha avuto distribuzione. Confesso che non è stato facile basarsi soltanto su di una parte del tutto – inevitabile un giudizio parziale – ma a vedere dal trailer si può ipotizzare una sorta di viaggio stancante e doloroso tra spettrali fondali desertici, che ricordano la desolata poesia di paesaggi di quel tipo in voga nel dopoguerra o, per essere più prossimi ai nostri tempi, affini anche ai lavori di Jim Jarmusch, ovvia l’associazione con lo score del suo notevole “Dead Man”. Carlson, quindi, come un novello e diligente seguace younghiano, si prodiga per suonare un riff più volte uguale a se stesso ma decisamente efficace, e non è poco. Insomma, si ha davvero la sensazione di ascoltare una musica mentale, dove le linee melodiche si confondono come perse nella nebbia, ed alla fine dei conti si esce storditi da questi 24 frammenti che si fanno ricordare come un oggetto unico, al massimo possiamo menzionare la melodia ariosa dell’apertura, che chiaramente torna alla fine del disco, o la storta slide di “VII”. Tutto qui, ma sempre fatto con gran classe e, va detto, un pizzico di mestiere.
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