Come erano i Dream Theater prima di James LaBrie? È una domanda che in pochi si pongono al primo ascolto della band di Boston. Anche perché, tra tanti capolavori come Images And Words, Awake, al contrario, il disco d’esordio, When Dream And Day Unite, per molti proprio non esiste. Nove su dieci si parte da altre vie, poi però ci si arriva e ci si deve fare i conti. Nel bene o nel male. Ascoltarlo dopo aver toccato con mano la qualità dei DT anni Novanta, equivale a scoprire che la carota all’inizio era viola. Già, c’è stato anche un tempo in cui agli assoli di Petrucci e alle rullate di Portnoy, si alternava una voce che non era quella di James LaBrie. La sorte del suo predecessore, Charlie Dominici, la conosciamo tutti. Fatto fuori, licenziato dopo un disco. Troppo limitato e piatto rispetto al prog metal a cui aspiravano gli altri. Prima di lui la stessa sorte toccò ad un certo Collins. Identico il motivo, a denotare anche una certa vena da “business-band” che contraddistingue i Dream Theater fin dall’inizio. Sempre stati impresari di se stessi…
STORIA. Sarà un caso, ma anche stavolta parliamo di un disco travagliato nella sua genesi. Il gruppo si era formato originariamente nel 1985 dall’incontro tra John Myung, John Petrucci e Mike Portnoy. Si chiamavano Majesty, un nome che aveva suggerito Portnoy in onore del finale di Bastille Day dei Rush, definita appunto dal batterista «maestosa». A loro si aggiunse prima Kevin Moore alla tastiera, poi Chris Collins al microfono. Questi durò fino al 1988, quando la band decise di allontanarlo e sostituirlo con Charlie Dominici, scelto in una rosa di circa 20 candidati. A quel punto serviva una casa discografica e la Mechanic Records fu ben lieta di accoglierli nella loro scuderia, visto che fino a quel momento era rimasta a secco di artisti. Fu la Mechanic che impose agli allora Majesty di cambiare nome, senza considerare il tempo messo a disposizione per registrare l’album, solo un mese. Considerando i disagi, l’inesperienza e la fretta, When Dream And Day Unite acquisisce tutto un altro valore, tecnico e artistico. Qualche sbavatura, un paio di tracce che si chiudono con un (credo proprio non voluto) feedback di ritorno. Ma per il resto, emerge la bravura in produzione di Terry Date, che di li a un paio di anni firmerà anche uno dei capolavori dei Pantera, Cowboys from Hell.
IMPORTANZA. Ytse Jam, A Fortune In Lies, The Killing Hand, sono tutti campioni che i Dream Theater si porteranno nel bagaglio futuro, riproponendo questi brani anche nei live successivi. Nel caso di A Fortune In Lies con una piccola variante, rappresentata dal riff accorciato nelle esibizioni live, di chitarra, basso e batteria in Fa# nella sezione centrale. Questo perché nel disco, vi è un campionamento di frame tratti da un documentario, che testimoniano la passione per questi inserti speciali che i Dream Theater avevano fin dalle loro origini. L’album è un repertorio di pezzi fondamentale, perché rappresenta il lavoro dei primordi, quando i DT si chiamavano appunto Majesty.
SENSAZIONI. Le sonorità sono da Anni Ottanta pieni, quindi la batteria riverberata, e le melodie zingaresche del criticatissimo Dominici non aiutano. Io non sono un fan sfegatato dei Dream Theater, mi piacciono molti loro lavori ma da tempo li ho anche un po’ persi di vista. Forse è anche per questo che, vedendola da fuori, non ritengo questo cantante al di sotto dello standard del disco. Ragionando in maniera neutrale, un po’ tutti, compresi Petrucci e Portnoy, appaiono ancora molto acerbi. A Dominici fu fatto notare da subito la sua età avanzata rispetto al resto dei componenti della band. «Si atteggia troppo a Geoff Tate dei Queensrÿche», accusarono altri. Perfino After Life, l’unico testo dell’album da lui firmato, per i fan sfegatati resta un mistero. Ragionando con equilibrio, è innegabile che con l’arrivo di LaBrie i DT abbiano trovato la svolta. Resta il dubbio su cosa sarebbero stati, e dove sarebbero potuti arrivare, se avessero deciso di investire su Charlie. Chissà, forse oggi questa recensione non l’avremmo neanche fatta…
CURIOSITA’. Il titolo Ytse Jam non è altro che la parola Majesty riportata al contrario. Majesty era il nome originario del gruppo. Tra quello e il nome definitivo, consigliato dal papà di Mike Portnoy (Dream Theater, il nome di un cinema di Monterey, California), ci fu anche la breve parentesi dei Glasser, nome che durò per una sola settimana poco prima dell’uscita di When Dream And Day Unite. Portnoy e soci dovettero abbandonare il nome Majesty in quanto esisteva già una jazz band che si chiamava così, ma non vi rinunciarono mai del tutto e fin da WDADU la sua evocazione resiste attraverso il sombolo, una “M” stilizzata, che nella copertina del disco in questione assume i connotati di un marchio a pelle sulla figura in primo piano.