Magazine Cultura
DRIVE BY TRUCKERS Shepherd's Bush Empire Londra 13/05/14
Creato il 20 maggio 2014 da MaurozambelliniPaziente, in fila ordinata, un pubblico agè attende l'apertura dello storico Shepherd's Bush Empire, un teatro in cui si sono esibiti tutti i più grandi, dagli Who ai Rolling Stones, da David Bowie a Paul Weller, da Amy Winehouse ad Adele. E' una serata mite a Londra e mai avrei creduto che ci fosse il tutto esaurito per gli americanissimi Drive By Truckers. Dopo il muscoloso apripista degli Heartless Bastards di Cincinnati, Ohio, alcuni dischi alle spalle per la Fat Possum ed un ultimo lavoro, Arrow per la Partisan Records, il parterre e la doppia galleria del Shepherd's Bush Empire, teatro dallo stile vagamente rococò, si riempiono per quello che sarà un concerto memorabile. Nel frattempo i bastardi senza cuore sparano un garage rock melodico trainato dal potente basso di Jesse Ebaugh e dalla front-woman Erika Wennerstrom, il sound heavy non scompone le numerose teste canute in sala, generose pance da birra e aria rilassata. Ci sono anche le loro signore e non mancano i più giovani ma sostanzialmente il pubblico è più vecchio degli stessi Drive By Truckers. Quando entrano in scena piovono subito applausi, in una sorta di stima a prescindere, parte a cantare Mike Cooley con la sua voce cupa e baritonale ed una dopo l'altra si susseguono le canzoni dell'ottimo English Oceans ovvero il talkin' incalzante di Made Up English Oceans segnato dalle tastiere di Jay Gonzalez, musicista sopraffino che si alternerà con Hammond, piano elettrico e chitarra Gibson SG, e poi la pettyana Primer Coat e la romantica Pauline Hawkins dove è invece Patterson Hood con la sua voce sofferente a prendere la scena. Sono le ballate ad introdurre il concerto, quelle polverose cavalcate dove dentro c'è tutta l'America dei DBT, l'eco western e le rasoiate del rock, il mito della strada ed il bizzarro fatalismo delle storie del sud. Notevoli sono le differenze con i DBT furenti e punk che avevo visto a Milano qualche anno fa, qui a Londra, nonostante non lesino in assoli devastanti ed in martellamento ritmico, suonano con più pienezza e maturità, spesso sorridono tra loro, si scambiano occhiate compiaciute, si vede che suonano per il puro piacere di farlo e, complice la lingua, Hood si diverte in lunghe presentazioni che provocano l'ilarità del pubblico.
Si sente che English Oceans è un disco migliore dei due che lo hanno preceduto ed un ritorno alle sonorità passate, il sound è ricolmo di musica, è muscoli, nervi e cuore, Patterson Hood è il grande cerimoniere ma Cooley è l'altra faccia della medaglia, è un chitarrista di talento dal tocco stoniano ed una plausibile alternativa alla voce disperata di Hood, a fianco c'è una band che, superati gli sbandamenti e i cambiamenti, ha trovato l'assetto perfetto. Brad Morgan, il batterista, barba lunga da mormone, picchia senza sbavare e senza platealità, il bassista Matt Patton (faceva parte dei Dexateens), alto, filiforme, jeans e stivaletti, con capelli a caschetto sembra preso di sana pianta dai Chesterfield Kings, per come si veste, si muove e suona. Piegato sul suo Fender, saltella, rivolgendosi ora al batterista, ora entrando in cerchio con Hood e Cooley quando i DBT partono per la tangente e tirano un rock n'roll che è gioia di vivere. Da par suo Jay Gonzalez riempie gli spazi con tastiere che fondono i Muscle Shoals con Benmont Tench, quando invece imbraccia la chitarra, si unisce agli altri in quella che è una vera guitar army. Lui e Hood si sfidano incrociando le elettriche, fanno rumore e feedback, si inginocchiano coi loro strumenti, portano i DBT nei territori del grunge e dell'underground. Hood è il magnifico affabulatore, parte in lunghi monologhi, esilarante la storia di sua madre che si innamora di un camionista reduce dal Vietnam e lo porta a sposarsi in Louisiana (18 Wheels of Love) e quella del nonno dal caratteraccio impossibile e dai modi da patriarca ma col vizio del gioco, chiamato generale solo perché aveva prestato servizio nell'esercito (Box of Spiders), con la band che punteggia le sue narrazioni per poi esplodere in un rock potente ed epico. Hood sembra uno Springsteen meno messianico dei tempi di The River, lunghe introduzioni con la tensione che cresce e immancabilmente deflagra in una ballata che ribalta cuore e anima o in un rock sporco di strade e benzina, bruciante e liberatorio. Un paio di brani in odore di country rallentano il viaggio ma le sfumature roots sono sublimate dentro un set tosto e selvaggio oltre che romantico. I DBT pescano nel loro passato, quello di The Dirty South con Carl Perkins Cadillac e Lookout Mountain e di Southern Rock Opera con Let There Be Rock e Zip City citando i Lynyrd Skynyrd e Jason and The Scorchers ma attraverso i Replacements arrivano fino a Tom Petty e al British Rock. Il suono è sintesi di una vita sulla strada, i testi non propongono il sud stereotipato dei loro padri e nonni, c'è poesia e nobiltà nel loro senso di appartenenza ma anche scetticismo, il realismo di chi è consapevole che proprio la retorica sudista ha condannato quella terra alle sue miserie. Non sono tanti oggi nel rock a raccontare la vita non per metafore ma per esperienze, Patterson Hood è uno dei più acuti songwriter della sua generazione, il suo carisma sul palco è tangibile, lui è la luce, Cooley le ombre, i DBT sono la più felice trasformazione dell'antico southern rock in un rock dalle visioni molto più critiche e sfaccettate.
Pulasky da Go-Go Boots e Get Downtown da The Big To Do guardano al passato prossimo, la melodica e arruffata Natural Light con quel piano che fa molto saloon del west e la urgente Shit Shots Count sono invece il presente e si guadagnano fragorosi applausi, così come Play It All Night Long tratta dal repertorio di Warren Zevon porta alla ribalta una sensibilità ed una umanità che pochi posseggono, almeno tra quelli della loro generazione. Potrebbe bastare un'ora e quarantacinque minuti di concerto per quanto i DBT hanno fin qui espresso e fatto vedere, ma lo spartano palco allestito per il loro show è pronto ad accoglierli ancora, per l'apoteosi finale. Che arriva immancabile con un encore di ben quattro brani, l'ultimo dei quali, Grand Canyon è un vero piece de resistence, la misura della loro stratosferica forma attuale, una straziante ballata elettrica sui lutti che hanno colpito l'entourage della band, che trova Hood, ormai sfinito tra dispendio di energia e le numerose sorsate di birra e whiskey, impegnato in un racconto che ruba l'ultima emozione ancora disponibile, mentre la band friziona come fossero gli Wilco più acidi e deliranti. Ad un certo punto Hood se ne va abbandonando la chitarra a terra, senza vita, e così lo imita Mike Cooley che lo segue dopo la sua ennesima zampata chitarristica, Gonzalez tiene alto il suono fino a quando non abbandona le tastiere inserendo un loop che si ripete ipnotico ed ossessivo e accompagna basso e batteria che rimangono sul palco soli a tenere acceso l'ultimo estenuante groove di un concerto che ha letteralmente messo in ginocchio lo Shepherd's Bush. Con i Black Crowes momentaneamente (speriamo) in stand by, sono i Drive By Truckers la più grande rock n'roll band del nuovo sud.
MAURO ZAMBELLINI
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