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Drive: capolavoro sì, capolavoro no, capolavoro boh…

Creato il 03 ottobre 2011 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Drive: capolavoro sì, capolavoro no, capolavoro boh…

Capolavoro si nasce o si diventa? Drive è uscito nelle nostre sale come un annunciato, acclamato e insignito capolavoro, forte del meritatissimo premio alla miglior regia a Cannes 2011. Ma è davvero un capolavoro? E soprattutto su quali basi possiamo o meno definire una pellicola un masterpiece? Rispondere a questa domanda in merito a Drive mi rimane un po’ difficile. Ma cerchiamo di analizzare la cosa.

Nicolas Winding Refn sa fare il suo mestiere, sa fare cinema. Lo ha già dimostrato con lo strabiliante Bronson. Crea un’opera densa e intensa, appiccicosa e gelatinosa, dolciastra di quel sapore che intride l’amore e il sangue. Sa tenere il pubblico con gli occhi incollati allo schermo, un pubblico desideroso di non perdere neppure una scheggia del suo stile. Sa mischiare le carte, facendo scaturire l’adrenalina dal sentimento, orchestrando sapientemente una prima parte d’attesa, fatta di silenzi importanti e di suspense immobile, ad una seconda che turba e diverte, sgomma e graffia. Il coup de theatre c’è, lo spettatore si galvanizza, premiato dopo la lunga attesa iniziale. Degni di nota gli inseguimenti che ricordano le scorrazzate sul dirupo di Mission Impossible 2 tra Tom Cruise e Thandie Newton, le volate contromano in galleria di Ronin e le fughe di The Town di Ben Affleck.

Refn dimostra di essere stra-capace di shakerare i generi, di poter fare un film d’amore romantico e subdolo, zuccheroso e torbido, con una bella dose di noir. Ma anche un action thriller che non si riduce ad un sempliciotto fast and furious. Tiene i piedi saldi su due staffe diverse e galoppa a marce forzate.

Refn sa giocare con ombre, specchi e specchietti, carrelli infiniti tra officine e supermercati, campi e controcampi sfasati di livello. Roba da andare in brodo di giuggiole.

Un discorso a parte merita l’estetica che Refn ha del sangue. Non è lo smodato splatter di Rodriguez, né il più mirato e “lirico” pulp di Tarantino. Ma neppure l’istantaneo e incisivo fino all’osso snatch di Cronenberg o il rosso sgorgo divertente e compiaciuto di Friedkin. E’ un sangue spruzzato, che, contemporaneamente, fa dire “bleah” e leccare le labbra, aggrada e ritorce lo stomaco.

La fotografia di Newton Thomas Sigel è preziosa, magica, anche grazie alla complicità di una Los Angeles luminescente e buia, colorata e crepuscolare. Refn ama i colori caldi tendenti all’acido come il rosso/arancione da allarme sotterraneo e disco inferno.

Pur con qualche sintomo di “già visto”, il soggetto, più che i dialoghi, funziona, coinvolge, strega.

Il montaggio taglia, scalfisce, e in alcuni momenti (v. il primo colpo di pistola contro Standard) fa saltare sulla poltroncina. Ma un ulteriore valido esempio è la scena finale con ombre da bagagliaio.

Quanto alle musiche, stupisce la giustapposizione della spettrale, robotica e satanica Night call di Kavinsky con la dolce tamarrata di A real hero dei College, dell’elettronico andante di Cliff Martinez con la lirica e sinatresca Oh my Love di Riz Ortolani e Katyna Ranieri. Un gusto eclettico che ricordiamo solo in Lars Von Trier.

Il protagonista creato convince. Ma badate bene: il personaggio, non l’attore (e su questo torno a breve). A real human being and a real hero cantano i College in collaborazione con Electric Youth. Sì, l’innominato protagonista è uomo, eroe, superuomo, ma non supereroe. Si innamora, suda, vendica, trema con un proiettile in mano, fracassa teste con la rabbia di un mortale davvero incazzato, sgrana la mascella nel momento di tensione che anticipa il degenero. E’ carne e ossa, è uomo, prima che (anti)eroe. Ma il problema sta nell’interprete: Ryan Gosling. Ecco una piega/piaga evidente che fa scricchiolare il tutto. Non sto dicendo che Gosling non sia stato bravo. Lo è. Ma rimane quell’amarognolo in bocca che ci fa dire “forse non era l’attore giusto per questa parte”. La faccia d’angelo, pulita, da pischello sbarbatello non lo aiuta (e non mi soffermo sul ridicolo vocione che si è beccato nel doppiaggio italiano!). Alterna momenti di profondo sentire della parte ad altre da svagato teenager a spasso per il liceo. Una performance discontinua troppo palese, tanto da risparmiarci, verso il finale, un’ennesima faccia da ebete cupido indossando una maschera di gomma che ricorda molto le fattezze di Bronson (auto-citazione interna di Refn).

All’altezza invece tutto il resto del cast, a partire dalla biondina occhio languido e sognante Carey Mulligan e dal gene hackmanesco Albert Brooks.

Ma giunti in fondo a questa analisi, possiamo dire che Drive è un capolavoro? No… è certamente un buon film, un ottimo film. Ma si percecisce che qualcosa manca. Forse perché troppo stiloso? Forse sì. Ma è anche questo che ci fa senza dubbio dire che Nicolas Winding Refn è un regista favoloso, fuori da comune, dotato di originalità e personalità da vendere. Refn è Cinema. Capolavoresco non esiste come aggettivo. Lo conio io. Refn è un director capolavoresco.



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