Drive, USA, 2011, 100 min.
Buon ultimo arrivo io a recensire quello che, per me, era il film più atteso da qualche mese a questa parte. Me la sono presa comoda, ho goduto l’attesa, le proiezioni saltate all’ultimo hanno fatto crescere l’hype; man mano che leggevo le recensioni e i commenti in giro sapevo che era un film per me, di quelli che mi fanno comparire un sorriso ebete sul volto mentre li guardo e non c’è nulla da sorridere. La troppa aspettativa spesso si rivela controproducente, ma non riuscivo a trattenerla fin quando non si sono spente le luci in sala….
I titoli di testa rosa shocking e il font alla “Vice City” rappresentano solo il primo dei tanti richiami al cinema e alla cultura degli anni 80 di cui Drive, che si propone anche come una sorta di nuovo western, è allo stesso tempo un sincero omaggio e una intelligente rilettura moderna con il suo “cavaliere della valle solitaria”, un Clint Eastwood metropolitano con al posto del sigaro uno stuzzicadenti. Volto impassibile, di poche parole, il personaggio senza nome (è semplicemente Driver, l’Autista) interpretato da Ryan Gosling non ha passato nè futuro, vive nel presente la sua parabola irrimediabilmente tragica e romantica con il più classico degli amori impossibili e solo sussurati. Barcamenandosi tra i set cinematografici dove fa lo stuntman, l’officina del suo mentore e rapinatori per i quali fa da guidatore, il metodico e preciso Driver vive secondo una rigida griglia di valori (a)morali che verranno però scombinati dall’entrata in scena di Irene (Carey Mulligan), la ragazza della porta accanto con figlioletto al seguito, portando il protagonista a compiere scelte dolorose pur di dar loro la tranquillità.

Il danese Refn, che con questa sua prima pellicola holliwoodyana ha vinto il premio per la migliore regia all’ultimo festival di Cannes, dirige con mano sicura una storia vista tante volte; situazioni e personaggi che sanno di archetipi donano alla sceneggiatura il sapore dell’essenzialità e della rifondazione del mito. Il regista non si limita certo al citazionismo o ad un raffinato esperimento metacinematografico (la parte finale sembra un’allegoria per la trasformazione in un supereroe), ma anzi la sua impronta personale è presente in ogni scena del film, dai momenti più romantici a quelli più drammatici e violenti; riesce addirittura ad unire i climax di queste due “tonalità” nella mirabile scena dell’ascensore che probabilmente rimarrà nell’immaginario del cinema di questo decennio e che per questo non voglio rovinare a chi non ha visto il film.

Drive rimane comunque un film non per tutti i palati (e gli stomaci!), troppo lontano dalla concezione moderna di film d’azione sia nella messa in scena che nel ritmo per diventare anche un successo commerciale. Questo non perchè il film sia lento, anzi prende man mano quota, ma perchè richiede l’attenzione dello spettatore e uno sguardo più contemplativo rispetto ad un action adrenalinico, anche in virtù della scarsa presenza dei dialoghi che potrebbe venire mal sopportata da chi è abituato a non ascoltare i silenzi. Il gioco di sguardi, piccoli gesti, sorrisi accennati che contraddistingue l’evoluzione del rapporto tra il Driver e Irene ne è l’esempio più lampante e la purezza di sentimento che ne traspare – senza venir mai sovraccaricata - è una delle cose più cinematografiche che possa capitare di vedere.
EDA
Vi lascio con la canzone più rappresentativa del film



