La domanda che mi pongo non nasce dalla preoccupazione per la condizione della Divinità: non ho indizi che mi portano a pensare che Essa soffra di un momento di afflizione derivante, ad esempio, dalla piega non entusiasmante che hanno assunto le sorti del genere umano il quale, al momento attuale, per palese apprezzamento e unanime valutazione, non beneficerebbe di una fase appagante del suo sviluppo. È sorta invece dalla curiosità, dal vizio antico di voler capire come funziona la realtà che mi sta attorno, cosa si nasconde dietro ogni fenomeno, finanche dove il meno dotto fra i gesuiti riuscirebbe a spiegarmi che il nulla esiste e a convincermi che esso è pure stramaledettamente colmo; dove un parroco di paese basta per mettere in chiaro che Dio non può non essere felice, in quanto tutto, e dico proprio tutto quello che succede nel mondo, accade col suo consenso in quanto il creato, e l’umanità con esso, viaggia verso le mete che Egli ha stabilito, mete salde, ben precisate, se pure non istantaneamente percepibili alla nostra razionalità; dove anche un vecchio sacrestano sa distinguere il vizio dell’infelicità dalla virtù del suo contrario e concludere che dunque Dio, che è perfettissimo, non può conoscere alcun vizio, neppure quello di una leggera insoddisfazione.
Mi pare di poter obbiettare almeno al sacrestano, ricordandogli che la venuta del Figlio di Dio fu il rimedio, ritenuto necessario agli stessi occhi del Padre che lo mandò, per correggere un fatto inequivocabilmente imprevisto come la deriva della genia degli uomini dalla via tracciata dal Creatore, già a partire da Adamo medesimo, per seguitare con la stirpe di Abramo da Ur, alla quale fu rivolta la Sua attenzione tanto benignamente da stringerci alleanze eterne, superando l’evidenza per cui ad essa, trascorsa una giornata senza che ne avesse combinato una delle sue, il buio della notte successiva non bastava a nascondere riemergenti velleità di rivolta. Risparmierei all’aiutante del parroco i ragionamenti di un Erasmo che dimostrò sino alla noia come la felicità, almeno negli uomini e nelle donne di questo mondo, sia figlia della follia: pertanto parrebbe irriverente verso Dio accreditarLo di essere felice, poiché equivarrebbe a considerarLo folle.
Col parroco del mio paese potrei stendere un ragionamento a partire dall’attualità dei messaggi del nostro papa Benedetto che non perde occasione per rincrescersi degli episodi inumani che colpiscono i figli di Dio in questa e nelle altre parti del Globo, sia che pertocchino gli adepti alla Chiesa di Roma o altre popolazioni con credi differenti o senza, fatti tutti che lo rattristano oltre ogni dire, che lo inducono a chiedere a noi peccatori di pregare intenzionalmente e di operare positivamente affinché cessino misfatti di tal genere, specialmente quelli che coinvolgono i bambini. Francamente mi pare difficile prevedere che il mio prete obbietti contro questa semplice constatazione della realtà che è cronaca domenicale, per questo mi permetterò di borbottare per chiedergli, constatato che il Papa, legittimo rappresentante del nostro Dio in Terra, è angosciato, come può Dio non essere sfiorato da un’ombra di sconforto?
Rintuzzerà la mia logica più o meno stringente con argomenti quali l’inconoscibilità del disegno di Dio per l’umanità o dell’inammissibilità per noi umani di attribuire a Dio categorie dello spirito che sono state coniate per l’uomo? Se, per sua scelta, insisterà sull’impossibilità per noi umani di vedere con chiarezza i destini che ha forgiato per ciascun individuo del creato, uomini e scimmie inclusi, e per tutti quanti nel loro insieme, potrò sempre far valere l’idea secondo cui pare insopportabile alla coscienza il fatto che il male, le cattiverie e le atrocità, tutto quanto insomma viene prodotto dalla malvagità, sia un passaggio più o meno obbligato per addivenire ad un bene infinitamente più grande. Concluderei che dovrebbe convenire con me che il miglior interprete del pensiero divino non è stato Pietro, Paolo o Giovanni Paolo, ma un fiorentino del Cinquecento che di cognome faceva Macchiavelli: anche per Dio il fine giustifica i mezzi?
Per quanto riguarda l’opzione dell’impossibilità di attribuire al Creatore categorie dello spirito modellate per le creature, il mio prete si assumerebbe la responsabilità di smentire un bel po’ di Catechismo e di Scritture, a cominciare dalla definizione stessa di Dio, “Essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra”, e a niente varrà il sofisma secondo cui l’uomo non può essere perfetto poiché anzi è imperfetto, giacché mai potremmo dire di qualcuno che sia imperfetto, se non avessimo chiara in mente di cosa sia la perfezione. Non potremmo pensare della Divinità tutte le buone qualità espresse con gli aggettivi (con uscita in –issima) come grande, buona, potente, misericordiosa, sapiente, intelligente, giusta e integra (nell’ultimo caso l’uscita in –errima), come siamo abituati a pensare e a dire sin da bambini. Diversamente, il nostro Dio sarebbe un Essere senza Qualità, incomprensibile e inimmaginabile, un qualcosa di confuso, di nebbioso, di poco chiaro nei contorni e nella sostanza, tale che ci apparrebbe abbastanza estraneo, fuori da ogni orizzonte conosciuto, tutto compreso in se stesso. Qualcosa o qualcuno di cui si può tranquillamente fare a meno, qualcosa che potrebbe pure essere chiamato Caso, il quale appunto non può essere pensato grande o piccolo, intelligente o stupido, e così enumerando in attributi, salvo a dire che sia stato fortunato o sfortunato, tenendo bene a mente, in ogni circostanza, che la fortuna o la malasorte è l’effetto subito dall’individuo dall’inframmettenza del Caso, se viene percepito come gradevole o sgradito dal soggetto o nel giudizio altrui.
Il mio prete, non si discute, è intelligente: giocherà le sue carte migliori, mi metterà di fronte al mistero del sovrannaturale, ai dogmi, al dono della fede cosicché io, per uscire salvo dalla morsa fatale costruita con concetti e percorsi da tempo collaudati, sarò quasi costretto a dichiararmi miscredente, affinché lui possa concludere, serio in volto come chi non è aduso a gioire della vittoria, che potrà solamente e comunque pregare per me. Non lo ringrazierò per questo, non perché disconosco il suo diritto di pregare a favore di chi ritiene opportuno, ma perché è proprio inutile intercedere a mio favore: è una battaglia persa la sua, perché sono composto da un impasto mal riuscito, mi ci vuole almeno un’altra vita per rientrare nel gregge.
E la domanda però resta, non so quanto insulsa o quanto appropriata, lucida e tagliente come una scaglia di ossidiana: sarebbe sicuramente vana se non fosse genesi per un’angoscia sottile che mi spinge ad escludere razionalmente l’esistenza di uno dei termini che non riesco a coniugare insieme, Dio e la felicità, senza essere in grado di optare per uno di essi. A questo punto, l’incompatibilità fra Dio e la felicità mi appare concretamente provata: conseguentemente, se non riesce ad essere felice Lui, come potremmo sperarlo noi? La visione aberrante di un mondo pieno di Dio e contemporaneamente infelice mi pare impropria: in un tal contesto, come può conciliarsi un san Francesco? Al contrario, un seme di felicità che germina nel mondo, peraltro in un mondo senza Dio, non è da escludere, anzi è fortemente attendibile per quanto l’esperienza ci mette sotto gli occhi in quotidianità, per esservi stati dentro anche noi, a sbalzi e a mozzichi. Mi sembra di vedere un barlume, ma non riesco a superare la barriera che s’interpone tra me e la verità; come un moscone ronzo e mi affanno contro il vetro impenetrabile di una finestra: è pur vero che volo, ma resto comunque prigioniero.
L’altro ieri, alla Fiera, ho intravvisto il mio ex alunno di Maracalagonis: più vicino ai cinquanta che ai quaranta, girava per gli stand con due marmocchi e una signora non male. Non ho avuto modo di parlarci, non mi ha visto, non so niente più di lui, ancorché apparisse soddisfatto: che abbia scoperto nuovi elementi per aggiornare il suo personalissimo paradigma della felicità?
Featured image, il volto di Dio, Michelangelo, Cappella Sistina.