Composi il suo numero e lo chiamai.
-Carmelo ciao, sono io, Andrea.
-Ciao Andrea come stai?
-Abbastanza bene, che ne dici se passo a farti una visita nel pomeriggio?
-Volentieri, c'è qualcosa che non va?
-Vorrei parlarti, ho un dubbio.
-Ti aspetto qui, vieni quando vuoi.
Ore 16.00. Casa di Carmelo.
Biascicava quei brigidini e solo a ripensarci mi viene il vomito. Sembrava una mucca nella mangiatoia con quella sua schifosa lingua bianca da malato che mi mostrava ad ogni masticata.
Che schifo, da rabbrividire.
Si rivolgeva a me con aria da saccente osservando dalla finestra il suo prato ben curato, o forse, guardava semplicemente se stesso riflesso nel vetro della finestra: è un vanesio di quelli che fanno venire il nervoso.
Ogni specchio è buono per controllarsi il caschetto biondo.
Che uggia che mi fa venire con tutti quei versi, il narcisista, il divo, il dandy, il vate, nonché filosofo e poeta, roba da restare sui coglioni anche a se stesso se riuscisse a rendersene conto.
In accappatoio, con il dopobarba che ancora rendeva lucente il suo volto sbiadito, mi parlava di quello che per lui era il problema dei problemi, o uno dei tanti.
-É enorme l'enigma, un rompicapo tremendo, roba da perderci la testa.
Parlava sputacchiando.
Il tono della sua voce, sembrava suggerirmi di evitare ogni possibile ragionamento riguardo ai temi da lui esposti.
Non avrei alleggerito il suo fardello di domande e di dubbi ma anzi, avrei peggiorato la situazione.
Stetti in silenzio.
Ero lì per esporgli un mio problema, ci tenevo che mi ascoltasse.
Altezzoso e snob, caparbio ed egocentrico, il mio amico Carmelo Corsini si pone agli uomini come generalmente si usa fare con le formiche: non dando loro considerazione.
Carmelo si tiene a distanza da quello che succede fuori, gli basta una merdina di libro per capire, essere informato e poi partire con le sue assurde riflessioni.
L'esteta, l'amante del bello.
Ha una casa arredata con suppellettili che, a detta sua, hanno un valore inestimabile, a detta mia sono cose prese a caso in un qualsiasi mercatino di fine mese nella periferia più sperduta di una città del vattelappesca stato, nel vattelappesca continente.
Roba pacchiana.
Un ghepardo in ceramica, grande come un vero ghepardo, se ne sta in salotto a fare da guardiano.
Con questo, ho detto tutto.
No, anche la moquette amaranto è un particolare degno di nota, per non parlare degli angioletti dorati e dei violini sparsi per tutta casa.
Dopo un quarto d'ora, m'ero già pentito d'essere andato a trovarlo.
Ma dovevo parlargli, dovevo avere un suo parere, avevo in testa un cosa e dovevo parlarne con qualcuno.
Lui mi sembrava perfetto.
Proprio lui sarebbe stato l'unico a potermi aiutare.
-Carmelo, ho un dubbio e vorrei parlarne con te.
-Sei qui per questo se non sbaglio.
-Si. Risposi io chinando il capo.
-É un vero e proprio problema, Carmelo, credimi.
-Problema? La vita è un problema.
Mi rispose così e le palle mi cascarono letteralmente sulla moquette amaranto.
-Seriamente Carmelo, devo parlarti di una cosa importante.
Mi guardò, inclinò la testa e si mise in bocca altri brigidini.
Che schifo.
Poi parlò, ed indicando il giardino mi disse che avrebbe preferito andare là.
Un bel giardino il suo, col prato all'inglese, delle belle piante e molti alberi secolari.
-Hai un giardiniere?
-Si, un filippino che non capisce l'italiano, ma va bene, fa comunque un bel lavoro.
Ci sedemmo in giardino sotto il suo enorme gazebo.
Sempre in accappatoio, mi versò dello whisky nel bicchiere, whisky e bicchieri che si trovavano già sul tavolo di marmo attorno al quale ci sedemmo, come se fossero stati messi lì per l'occasione e probabilmente lo erano.
-Questo è strepitoso, scozzese, invecchiato vent'anni.
Mi disse, ammiccando compiaciuto.
Sono abituato al Jack daniel's, roba da poveri.
-Buono, ottimo.
Dissi sorseggiandolo.
-Di cosa volevi parlarmi?
Mi domandò distrattamente accarezzando un cofanetto di legno che se ne stava sul tavolo.
-Amico mio, sono un po' imbarazzato ma devo parlarne con qualcuno, tu mi sembri l'unico in grado di capirmi, vedi sto affrontando una fase delicata della mia vita e.....
Suonò il telefono, io non lo sentii ma Carmelo sì.
Corse in casa e ci stette per parecchio tempo, il tempo di sei sigarette per intenderci, e io fumo piano.
Stetti ad osservare il suo giardino, davvero bello.
Alcuni piccioni s'affacciarono dal tetto della villa e poi presero il volo.
Carmelo tornò imprecando qualcosa.
-Tutto bene? gli domandai. Mi sembrava nervoso.
-Si, quella stronza di mia sorella non riusciva a connettersi ad internet, non ci capisce nulla, mi fa venire il nervoso.
Sua sorella abita in Nigeria, commercia diamanti, è lei che manda avanti tutta la baracca.
-C'è riuscita?
Si passò le mani tra i capelli e sputò aria dalla bocca.
-Ti stavo dicendo Carmelo.
-Si, dimmi, ti ascolto.
Aprì il cofanetto di legno che accarezzava poc'anzi e un potente odore di marijuana avvolse i miei sensi.
-Ma che fai? Da quando fumi erba?
-Da poco, la coltiva il filippino che mi fa da giardiniere, me la regala.
Non dissi nulla ma restai sorpreso.
Mi riempii il bicchiere.
Restai ad osservarlo mentre preparava il tutto, sbriciolò una cima d'erma e l'avvolse nella cartina, mise il filtro, rullò bene e leccò la colla.
Pronto che fu, accese con forti boccate e denso fumo uscì dal suo naso per poi disperdersi nella calda aria di fine agosto.
-Ti stavo dicendo.
Dissi io mentre fumava.
-Ora fuma, ti libera la mente.
Mi disse lui passandomi quell'arnese fumante dopo aver fatto pochi tiri.
Fumai, non fumavo dalle superiori.
Guardavo i suoi occhi che s'erano socchiusi ed erano diventati rossicci.
-Mi dicevi?
Disse lui con le mani conserte.
-Come?
Domandai io, ero stordito come come se m'avessero fatto l'anestesia dal dentista e m'avessero stuzzicato la bocca per ore.
Poi dissi: -Ho un dubbio Carmelo, un vero dilemma.
Carmelo agitò le braccia come per salutare qualcuno, mi voltai e vidi un tipo alto non più di un metro, scuro di pelle, con delle forbici da giardiniere in mano e un cappello di paglia.
Il giardiniere filippino, appunto.
Richiamato dall'odore della sua erba, il giardiniere si sedette al tavolo con noi, gesticolò qualcosa e ci stringemmo la mano, poi anche lui preparò un altro spinello.
Morale della favola, alle sette di sera eravamo due cretini che si scaccolavano e ridevano ai versi stupidi del filippino.
Carmelo andò in casa a prendersi i suoi brigidini, tornò fuori e si mise a biascicare.
Era ormai l'ora di cena e decisi di andarmene, mentre ero in macchina mi domandavo se Carmelo avesse fatto tutto di proposito per non ascoltare quello che avevo da dirgli, colpa del fato o di non so che, ma avevo ancora i miei dubbi.
Parcheggiai la macchina vicino casa, percorsi a piedi tutta via Firenze e pestai una merda che un qualche bastardo aveva lasciato proprio in mezzo al marciapiede.
La pulii strusciando il piede nei giardini di piazza Dante, proprio sotto casa.
Ero in condizioni pessime, del tipo che vedevo orsetti bianchi fare capriole davanti a me e donne che andavano nude in bicicletta suonando il campanellino e fischiando.
Arrivai davanti al portone di casa, le ultime luci della sera rendevano lucenti i pomelli d'ottone, mi frugai in tasca ed infilai le chiavi nella toppa.
L'androne mi sembrava enorme, enorme come non l'avevo mai veduto prima.
Entrai in casa e andai subito in bagno per farmi una sana doccia rigenerante.
Il dubbio mi pulsava nella testa, batteva nella mia nuca e sembrava una di quelle palline di gomma che rimbalzano ed intraprendono traiettorie sempre nuove, quelle del mare per intenderci, quello dei distributori che si comprano ai bambini.
Uscii dalla doccia e misi davanti allo specchio, pulii la condensa dal vetro e mi guardai negli occhi.
Mi sembrava di aver pianto per tutto il giorno.
L'orologio del bagno segnava le otto.
Pensai al mio amico Carmelo, al fatto che non avesse voluto la mia intromissione in quello che per lui era il “problema”, il suo “enigma”, il suo “rompicapo”, il suo “dubbio”, e che non avesse voluto che gli parlassi del mio.
Mi guardai nuovamente negli occhi e poi tutto mi fu maledettamente chiaro, Carmelo m'aveva mostrato senza dire, lo capii in quel momento.
Il "dubbio", siamo noi.