di Alessia Ingrasciotta
Statua di divinità hindu a Ramtek, Maharashtra, India.
«Perché l’uomo ha sempre avuto bisogno di credere in un Dio?». Con questa domanda, alla quale potrebbero far seguito molteplici risposte, Swami Abhishek Chaitanya Giri inizia la sua lezione sull’esistenza di Dio secondo le maggiori scuole filosofiche induiste.
La vecchia sala lauree dell’Università di Torino è semi vuota: seduti sulle poltrone di velluto rosso, qualche professore, alcuni grandi studiosi italiani venuti per l’occasione e una decina di studenti, tutti guardano nella stessa direzione. All’ampio tavolo, al quale solitamente i professori della commissione di laurea stanno seduti ad ascoltare il candidato laureando, il Maestro spirituale, avvolto nel suo abito di un’accesa tonalità di arancio, siede a gambe incrociate mostrando in viso un’espressione di profonda serenità.
Il Guru non ha più di quarant’anni e da circa venti ha intrapreso il lungo cammino spirituale dell’ascesi. Senza alcuna esitazione parla della sua scelta di vita come qualcosa di estremamente naturale, anzi, non la definisce nemmeno una scelta: come un pesce non decide di vivere nell’acqua, lui si sente perfettamente in armonia con se stesso e con il mondo.
Pur con la consapevolezza di essere in visita in un Paese in cui prevale una religione prettamente dogmatica come il cristianesimo – e forse proprio per questo motivo – senza troppe perifrasi, lo Swami lancia la sua provocazione: «Perché pregare Dio di essere liberati da una sofferenza che lui stesso avrebbe creato? Perché credere in un Dio di cui si teme l’operato? Una religione che impone di credere in qualcosa solo perché qualcuno lo ha affermato è una religione che non auspica alcuna crescita spirituale nei suoi devoti».
Per quasi tre ore il giovane Guru riesce a tenere alta la nostra attenzione alternando tali delicate questioni a del sano umorismo, lasciando spazio a quesiti e maggiori approfondimenti. Il dubbio, lungi da essere nemico della fede, è quindi il più valido alleato della crescita spirituale dell’individuo che, costantemente stimolato, pone avide domande alla ricerca di verità sempre più profonde.
È difficile per me non scorgere nelle parole di Swami Abhishek un limpido riflesso del mio pensiero e un riscontro con la mia esperienza: nata in una famiglia cattolica ma non praticante, ho sempre cercato di capire come si possa avere fede in qualcosa che non è possibile vedere né percepire. Quando ero piccola, mia nonna mi chiamava affettuosamente “San Tommaso” e mi redarguiva rammentandomi che il peccato più grande che si possa fare è proprio non credere in Dio e che questo mi avrebbe condotta all’Inferno. In quello stesso periodo, la domenica osservavo i miei coetanei andare in chiesa solo per vedere gli amici, e le signore per sfoggiare le loro costose pellicce e i loro abiti nuovi impazienti di fare del gossip al termine della funzione.
Cominciai a pensare che in tutto questo ci fosse molta poca spiritualità e che probabilmente si trattasse più di tradizione che di fede. Crescendo, porsi delle domande è stato inevitabile. Addirittura qualcuno una volta mi accusò di superbia e prepotenza nel voler affrontare argomenti più grandi di me. Ero un’adolescente con un forte interesse per la filosofia esistenzialista, ma le risposte datemi da preti e altri credenti sono sempre state piuttosto vaghe, a mio parere poco convincenti e soprattutto basate sulla fede cieca e i troppi dogmi che trovano fondamento sulle Sacre Scritture.
Legno di sandalo che brucia in onore della dea Durga durante le celebrazioni di Dashahara
Al termine della conferenza, nonostante qualche domanda scomoda e volutamente provocatoria, Swami Abhishek non gira attorno alla questione ma la affronta direttamente mirando al nocciolo del problema. Aperto dunque a qualsiasi quesito, il giovane Maestro, guardando dritto negli occhi il suo interlocutore, con voce ferma e costante offre le sue risposte più esaustive.
Piacevolmente sorpresa dalla trasparenza delle sue parole, non perdo l’occasione di sottoporre le mie perplessità su alcuni concetti accennati durante la lezione. Con altrettanta limpida sincerità arriva quindi la risposta che non mi aspetto e che paradossalmente non può che rincuorarmi: «Per ciò che lei mi chiede non c’è una risposta univoca. Ci sono cose che pensiamo non esistano e altre che sappiamo esistere perché le percepiamo, ne abbiamo esperienza tutti i giorni e non possiamo certamente negarne l’esistenza, ma a queste stesse cose nessuno può attribuire delle definizioni precise. Probabilmente lei non sarà soddisfatta della risposta che le sto dando. E se non lo fosse, non posso che esserne felice perché vorrà dire che la sua spiritualità sta affrontando un percorso di crescita ed è proprio con questi interrogativi che lo dimostra».
Alleluja! Finalmente una conferma: ci sono domande che è giusto porsi ma alle quali non si può dare risposta. L’uomo, di fatto, non sa. Può solo fare delle congetture, sforzarsi di comprendere, ma non può avere la certezza di nulla al di fuori della propria esperienza. Alle parole del Guru non potevo quindi che rispondere così: «Grazie per la Sua risposta. E sì, credo proprio che Lei possa essere felice.»