Magazine Poesie

Due introduzioni per Antonio Bux (1)

Da Narcyso

Antonio Bux, Antonio Bux, Trilogia dello zero
Milano, Marco Saya Edizioni
“Poesia Oggi”, 2012

NEL TAGLIO NETTO CHE UNISCE BUIO E LUCE

buxino
La reverie del doppio è certamente alla base dell’idea di mondo per come il genere homo è andata costruendosela nel corso di migliaia di anni. Del resto sono convinto che certe idee ritenute culturali, le più antiche, abbiano senza ombra di dubbio dei fondamenti biologici più che antropologici. E dunque possiamo chiamare questo doppio di cui parla Antonio Bux ne la “simmetria”, oppure evocare una delle figure più potenti che la mitologia occidentale ci abbia tramandato: Narciso; scoprendo allora che, ciò che intendiamo per conoscenza, altro non è che il desiderio di riconoscerci in qualcosa/qualcuno che già ci conosce e che, pur conoscendoci, ha bisogno della conferma dell’esistente – mi guardo quindi sono – si potrebbe parafrasare.

Nello sguardo del doppio, non vale tanto la “practica”, vale semmai l’avvicendarsi dello sguardo, il tentativo di toccare l’ineludibile così profondamente radicato nella natura delle cose; l’esperienza tragica dell’avvertire, nella realtà tutta, il desiderio di una somiglianza, e quindi la constatazione di una mancata identità. Perché il guardare non realizza conoscenza ma angoscia della riconoscenza. Antonio Bux costruisce dunque la sua opera entro i limiti di gabbie mentali molto precise – la costruzione dittica dei versi, certo, i riferimenti metaletterari al tema in funzione di rinforzo – ma soprattutto i tre momenti successivi dell’indagine, nel tentativo, forse, di rompere lo specchio delle brame e di mostrare un volto che finalmente si è liberato del suo destino. Lo fa evocando una infinità di nomi: gli altri, e quindi l’esperienza del mondo, del fare insieme la storia della propria educazione affettiva in un clima necessario, non solo di costruzioni sintattiche, ritmiche e mentali, ma anche di erranza, di devianza in se stessi.
Lo fa, nella seconda silloge, provando a rinunciare, attraverso un experimentum – scrivere prima e dopo l’assunzione di stupefacenti – alla storia delle proprie modalità senso percettive, ad accecare gli occhi dell’altro che ci conosce, dimostrando che il deragliamento di tutti i sensi va condotto con metodo e che comunque non ci conduce molto lontano dall’esperienza dello sguardo che, anche negli ultimi istanti di vita, o nell’altra vita che sono i sogni, o in quella, assai ambigua della veglia, altro non fa che creare sensi dai sensi, amplificando l’equivoca visione di specchi che si riflettono in altri specchi.

Lo fa dedicandosi, specie nella terza silloge, alla minuziosa – ma quanto sfuggente catalogazione! – dei fatti minimi della natura e dell’amore – nei risvolti fisici e mentali – in quella esperienza, dunque, del corpo contro corpo in cui l’a/more – ancora uno specchio quindi – prova a giocarsi la partita più grande della riconoscenza nell’altro, mettendo sul piatto delle scommesse, addirittura il pegno della propria stessa identità.

Le poesie di Antonio Bux riflettono, insomma, un’ambiguità e ricchezza basate sull’invenzione di forme fredde (mentali) e calde (più direttamente legate all’esperienza) come pratiche della conoscenza tout court, mai svincolate dalla gabbia formale della costruzione – non ci può essere arte né scienza senza il rigore del metodo, l’economia del risultato -.

In fondo perfino il Tommaso della poesia che ho scelto per chiosare, chiede di mettere le mani nell’invisibile con metodo, quindi, riconoscendosi nella pienezza dell’altro, finisce col fare esperienza della propria stessa assenza.

a Tommaso

Oltre il vetro non vede più il corpo/come la mano sparita nel riflesso/dell’abisso che proporzionando sforma/cosí anche gli occhi svuotati rompono/nello sguardo che divide materia e nulla/ mentre congiunge lo spazio nell’intuizione/l’armonia di una sagoma spenta al vuoto/nel taglio netto che unisce buio e luce.

Sebastiano Tommaso Aglieco

 

***

UNA PICCOLA ANTOLOGIA DI TESTI SCELTI DALL’AUTORE

Da “La simmetria dei nomi”

*

ad Amelia

Nell’avvicinarci all’origine ripartiamo
dalla fine riavvolgendo ogni sguardo

ciascun nome e tutti i discorsi pronunciati,
ché rimane poco e molto nel limitarsi a vuoto

finanche le persone care sono specchi
che riflettono altri noi, al di là del vetro.

 

*
a Oscar

Marzo ha capelli di paura
fuochi delicati da una parte

s’avvicinano all’altro segreto
Narciso nella fiamma

ravviva la pietra
nel gioco trattenuto del bambino.

 

*

ad Andrea

Non si cerca l’oscurità nello scrivere
ché l’autore non esiste né il suo intento

ma l’esito è altro che una luce schiusa
da qualcosa che ci visita deformando

il sublime specchio della voce invocare
la fatica oscura delle nude pagine quando

la mente annullata dal rappresentarsi s’apre
e solo sa delle cose quella superficie fragile.

 

*

a Tommaso

Oltre il vetro non vede più il corpo
come la mano sparita nel riflesso

dell’abisso che proporzionando sforma,
così anche gli occhi svuotati rompono

nello sguardo che divide materia e nulla
mentre congiunge lo spazio nell’intuizione

l’armonia di una sagoma spenta al vuoto
nel taglio netto che unisce buio e luce.


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