Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo. Era magico il nome, come l’eccezionalità del viso. Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara presenti nel nostro liceo pubblico prevalentemente ebraico, nessuno aveva nulla che somigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inespressiva maschera vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome di Seymour Irving Levov.
Philip Roth, Pastorale Americana
Capolavoro assoluto. Un libro ostico perchè non scegle mai la via più semplice. Ma la complessità narrativa voluta da Roth non è mai fine a sè stessa, piuttosto rappresenta la deliberata scelta di costruire un labirinto di parole che trasmettano il crescente disfacimento della vita dello Svedese, dell’America, di noi stessi.
Confesso che mi ha fatto venire in mente il fine – ma non lo stile – spietato di Franzen, quasi un suo figlioccio anche se decisamente meno letterario nel descrivere i mali della middle class americana vista come un Arcadia che nasconde inferni sotto il tappeto.
E infine sappiate che il movimento di un piattello non colpito in movimento contro l’immensa volta di lapislazzuli del cielo in mare aperto assomiglia al cammino del sole – vale a dire arancione e parabolico e da destra a sinistra – e che quando il piattello sparisce nell’acqua tocca prima col bordo, non fa schizzi ed è triste.
David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più
Era invece un amico di Franzen David Foster Wallace, lo scrittore americano di culto morto suicida nel 2008. Sono stato cinicamente ispirato alla lettura di questo libretto dalla faccenda della Costa Concordia, dalla quale ho scoperto che DFW aveva dedicato uno scritto alla sua esperienza in una crociera extralusso.
Non so se questo sia significativo della scrittura di DFW (e in particolare del suo libro-mito Infinite Jest che per la sua mole e complessità potrò leggere solo trovandomi in un’isola deserta con quello come unica fonte di lettura) ma di certo è fottutamente divertente e abbastanza – non troppo – cattivo.
Val la pena di essere letto.